L’ambizione è quella di offrire un contributo
di cocente attualità all'interno del mondo contemporaneo,
accogliendone le sfide radicali, in un sentimento di costruzione sull'esperienza di chi, mantellata
dell'ordine domenicano, nell'età in cui altro non si era che sottomesse, osa
alzare lo sguardo e far sentire la voce nel mondo maschile ed ecclesiastico
invece di pregare nell'ombra e senza clamore. Solo la forza della sua parola e
la testimonianza della vita, unite ad una palese ispirazione dall'Alto, hanno
avuto la meglio sul pregiudizio e il sospetto, legittimo all'epoca, di essere
dinanzi ad una ambiziosa protagonista visionaria.
La sua era
un’arsura di dedizione viva, travolgente che desiderò compartire con gli altri.
Di Lei fermezza, temperata da dolcezza e autorevolezza volitiva, costituiscono
esempio di congruità della vita.
Non fu quella di Caterina una missione precipuamente
spirituale, teorica. Siamo nel XIV sec., nella vicenda complessa della
cattività Avignonese, il ritorno del papato a Roma è la grande questione che
assorbe le energie di Caterina. Fu protagonista
di un'intensa attività di consiglio spirituale nei confronti di ogni categoria
di persone: nobili e uomini politici, artisti e gente del popolo, persone
consacrate, ecclesiastici, compreso Papa Gregorio XI che in quel periodo,
appunto, risiedeva ad Avignone e che Caterina esortò energicamente ed
efficacemente a fare ritorno a Roma. Siamo nel momento del ritorno da Avignone a Roma,
un negozio assai delicato e tanto atteso per risolvere una situazione nella
quale nepotismo e interessi politici ebbero la meglio per lunghi decenni sulla
missione apostolica propriamente intesa. Lo stato morale della Chiesa, la
minaccia turca, la guerra con Firenze e i rischi del nazionalismo che gravano
la scena politica del XIV secolo necessitano una riforma prima di tutto
interiore, e per giungere al dominio di sé bisogna “lavorare sull’ordine
interiore delle tre potenze cardine dell’uomo: memoria, intelletto, volontà”. Caterina viaggiò molto per sollecitare la riforma interiore della Chiesa e
per favorire la pace tra gli Stati. Ella ci insegna che è necessario saper
essere fermi nei proponimenti e detterà la massima: «spesso la pietà è grandissima crudeltà».
Caterina, quindi, portatrice sana di
valori - che valicano i tempi - vive di un’intensità estrema, non estremista, il suo essere persona, il
suo essere donna, il suo essere innamorata del Bene e desiderarlo per ognuno. Racconta
di se, contestualmente però racconta il genere umano, quindi racconta di ognuno
di noi, e affiora così la sua originalità, che trova sede nella concezione
della Persona in simmetrica rispondenza con la definizione che ne dà l’ineguagliabile
dottore Tommaso d’Aquino: “Sostanza
individua di natura razionale, dotata di intelletto e volontà”. Per
Caterina ciò che consente all'uomo la scelta, l’uso consapevole della libertà è
la «ragione» unita alla «fede». In sintonia con il pensiero dell’Aquinate,
Caterina non mortifica ma esalta il valore della ragione. Tale sollecitazione
indica come l’uomo sia libero ed è perciò protagonista della sua storia e,
com’esecutore libero e responsabile del fine sostanziale della sua natura, è
continuamente chiamato a impegnarsi nel
perfezionamento umano e morale di sé.
Il suo pensiero politico ebbe come punto
di partenza, il riconoscimento del valore e della dignità della persona umana e
della strumentalità della società rispetto al destino eterno della persona.
Secondo Caterina, la società civile doveva essere in funzione e al servizio
dell’uomo e perciò non poteva avere altra finalità che quella di favorire e di
rendere possibile il completo sviluppo delle persone. Fine della società, per
lei, non fu l’interesse di alcuni, di un gruppo, di una fazione, di un partito,
ma il «bene universale e comune» che assicurava alla vita sociale un ordinato
sviluppo. Caterina fu tutta intenta a svolgere un’opera non immediatamente di
carattere religioso, ma addirittura politico, di riconciliazione e di pace.
Ella abbatté tutte le convenzioni sociali del suo tempo, nonché le ristrettezze
mentali, anche ecclesiastiche, riguardo alla donna, e si pose su tutti i fronti
dove l’uomo combatte in favore della verità, della giustizia, della pace, senza
giudicare nulla come impossibile, difficile, inadeguato, alla sua condizione di
donna del popolo e, inoltre, analfabeta. S. Caterina da Siena, ha detto
Giovanni Paolo II, conobbe «la parola
della riconciliazione» e la
pronunciò in un tempo difficile per la Chiesa e il mondo.
Caterina può sembrare a volte
assolutista, integralista, perfino in qualche caso “supponente” e, ancora, non
priva di qualche atteggiamento d’arroganza; in realtà è pervasa da una
profondissima umiltà e da un grande senso della realtà della condizione umana.
Può dare l’impressione di essere utopistica e, invero, esprime la sua infinita
ambizione perché l’uomo, il singolo uomo, dia il meglio di sé, sotto la sferza
della volontà. La sua voce insiste sull’“impegno”.
Ciascuno deve fare secondo le sue forze: è impegno della creatura umana
giovarsi dei propri talenti. Ecco il mito della volontà; non già la mera
intenzione, ulteriore punto d’attenzione, ma l’intenzione, seguita dall'impegno comportamentale; non soltanto esteriore, pur importantissimo, ma anzitutto l’atteggiamento interiore profondo,
della mente e del cuore ha una sua innegabile rilevanza. Parlerà pertanto di
libertà come “tesoro che Dio ha dato nell'anima”. L’anima è libera nelle sue
scelte: “L’anima ch’è fatta d’amore e
creata per amore alla immagine e similitudine di Dio, non può vivere senza
amore; né amerebbe senza il lume. Onde se vuole amare, si conviene che vegga”.
Nelle sue Lettere emerge in qual misura
la dignità personale dell’uomo sia il fondamento, la sicurezza e il valore
della sua abilità politica.
Anche oggi, senza «confessionalismo» ma
col vigore di una coscienza cristiana illuminata e intemerata, la Senese insegna
a tutti, altresì ai politici, la carità che non solo è il valore centrale
dell’etica cristiana, ma anche la fonte inesausta di una vera civiltà. È la giustizia, Ella lo insegnò, che
assicura il bene individuale e il bene comune. Anche la giustizia individuale
deve essere coordinata con la giustizia universale, perché la virtù è unica e
unitaria così come la carità. Se subisce un’ingiustizia un singolo, la subisce
tutta la società, per non dire poi di quando il bene comune universale è spacciato
allorquando copre un interesse personale del detentore del potere, il quale
così si sottrae al dovere di servizio e privatizza egoisticamente la funzione
che la società gli attribuisce unicamente nell'interesse collettivo.
Tutta l’attività pubblica di Caterina è
protesa, qui sta la sua universalità e la sua attualità, a richiamare gli
uomini a un mutamento, anzi a una trasformazione radicale intima della persona.
Ella mostra di non credere molto alle modifiche di struttura di un sistema o di
un ordinamento, e tenta di fare breccia nelle menti e nei cuori: l’uomo, la
persona prima di tutto. La politica, nella concezione cateriniana, trova la sua
ragione e, allo stesso tempo, i rispettivi limiti, nella direzione della
persona umana, rilevando che è la società al servizio dell’uomo e non già
l’uomo al servizio della società, secondo anche una cristallina tomistica
concezione della sussidiarietà del pubblico rispetto al privato.
Evidenzia come: «Tre sono i peccati fondamentali dell’uomo politico e del pubblico amministratore:
evitare la contesa, rimandare la decisione e tollerare il male». Peccati
che essa riassume nel: “sonno della
negligenza”. Il pensiero espresso nelle Lettere continua: «chi non sa governare se stesso, non può
governare gli altri».
Caterina non esclude la disparità
d’opinioni, il pluralismo culturale e ideologico, quello che oggi diremmo
partitismo; predica la tolleranza, la sostanziale unità, la capacità di
superamento delle divisioni per realizzare i denominatori comuni. Sembra di
poter immaginare la Santa come un personaggio forte, altissimo che punta
l’indice contro i governanti, ma non tanto per accusarli, bensì per esortarli a
capire e a ricordarsi un’idea essenziale: la “città”, in altre parole il potere
civico, non è data a loro per loro stessi; essa è invece data loro “in
prestito” perché ne facciano buon governo, in pratica esercitino correttamente
il potere, per il servizio in favore dei governati. Non quindi un fatto
arricchente, ma un fatto responsabilizzante.
''La funzione civile, ha osservato S.S. Benedetto XVI, è talmente eminente e insigne da rivestire un carattere quasi 'sacro'; pertanto essa richiede di venire esercitata con grande dignità e vivo senso di responsabilità''.
Con la perdita, a livello sociale e
politico, di una comune visione del bene, ciò che resta è un insieme
d’individui con interessi particolari e fra loro discordanti, la cui convivenza
è garantita da un sistema di regole pratiche. In concreto, la giustizia non
avendo più alcun riferimento con il bene, ha perso il suo ruolo di virtù, è
identificata con il sistema di leggi inter soggettive, destinate ad assicurare
la convivenza civile. Essere giusto, oggi, non significa dare a ciascuno ciò di
cui ha bisogno per realizzare il suo telos
sostanziale come cittadino, bensì significa limitarsi a un rispetto formale e
giuridico delle regole comuni di vita. Ne consegue che, da una parte, il bene
non compreso più come un’istanza complessiva e oggettiva di senso, esce dalla
scena morale divenendo fulcro d’interesse soggettivo e di felicità individuale.
D’altra parte la giustizia, come valore culturale della vita sociale e della
cooperazione umana, è diventata il luogo dell’imparzialità e della morale
legalitaria. La domanda morale fondamentale si concentra su cosa ho il dovere
di fare in rapporto agli altri, e trascura completamente il problema
eudemonistico della libera e responsabile formazione morale di sé,
considerandolo legato a fattori empirici e soggettivi.
I cristiani, diceva un grande filosofo
del ‘900, Hans von Balthasar, sono «i
guardiani di una metafisica della persona integrale in un’epoca che ha
dimenticato tanto l’Essere quanto Dio». Essi portano la responsabilità di tener vivo l’amore colmo di stupore che è
il punto di origine di una esistenza autenticamente umana e include l’intero
cosmo nella sua ampiezza. Ci ricorda, inoltre, S.
Tommaso, che “la fede emotiva non è fede, le emozioni non sono il soggetto della
fede, soggetto della fede è l’intelletto speculativo”. Prendendo spunto da
questo concetto, reso altamente operativo da Caterina, si potrebbe pensare,
permettetemelo, a un’analogia propositiva per l’arte del governo della cosa
pubblica, in tutti i suoi ambiti: la
politica emotiva non è politica, l’emotività non è il soggetto della politica,
soggetto della politica è l’intelletto speculativo che induce all'azione responsabile, capace sicuramente di emozionare ma nell’esercizio pratico della “carità intellettuale”.
Formare, guidare, educare è, pertanto,
un atto d'Amore, esercizio della “carità intellettuale”, che richiede
responsabilità, dedizione, coerenza di vita e che, nel contempo, diviene
bellezza dell’essere. L’amore non
è solo nelle cose che diciamo quanto piuttosto e soprattutto in quello che
facciamo, operiamo. Comune denominatore della bellezza e dell’amore è la gratuità, e la tenacia di una figura
esemplare qual è Caterina, Dottore della Chiesa, ne è chiara testimonianza
edificante. Fare tesoro di tale umano esempio di
capacità comunicativa, di coraggio, risolutezza per il bene intendere operare
di libertà e di politica, diventa ricchezza morale e patrimonio praticabile,
nonché vigoroso stimolo di speranza, per un orizzonte di decisa lungimiranza costruttiva.
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