Non si può educare l’uomo, ignorando l’uomo. Quando noi domandiamo "che cosa è un uomo?", la risposta è la sua definizione, che ci dona l’essenza. Tommaso d’Aquino si rifà alla classica definizione: «È proprio dell’uomo essere animale ragionevole» (Gent., III, 39).
«Negli enti gerarchicamente disposti,
una perfezione può trovarsi in tre modi: in modo appropriato, in
modo eccedente o in modo partecipato. Una perfezione si trova in
modo appropriato in un soggetto quando essa è adeguata e proporzionata
alla natura del soggetto. Si trova in modo eccedente, quando la
perfezione è al disotto del soggetto cui viene attribuita, e conviene ad esso
in grado sopra eminente. Si trova in modo partecipato, quando la
perfezione suddetta non raggiunge nel soggetto tutta la sua pienezza. Quando a un dato essere si voglia imporre un nome che ne denoti l’intrinseca
proprietà, questo nome non va desunto né da ciò che esso partecipa
imperfettamente, né da ciò che possiede in grado eccedente, ma da ciò che è
commisurato ad esso. Quindi, volendo denominare con nome proprio l’uomo, lo si
dovrà chiamare “sostanza razionale” e non sostanza intellettuale, che
è il nome proprio dell’angelo; mentre la semplice intelligenza
conviene all'angelo come proprietà, all'uomo conviene solo per partecipazione;
né si potrà chiamare sostanza sensitiva, che è il nome proprio del bruto,
poiché la sensitività è qualcosa di meno di ciò che è proprio dell’uomo, ed
essa, in confronto agli altri animali, conviene all'uomo in grado eccedente» (S.
Th., I, q. 108, a. 5).
Tommaso, sulla scia di Aristotele,
analizza le componenti essenziali di
questa definizione, sostiene che la natura umana risulta da un’“unione
sostanziale” dell’anima e del
corpo. Un anima che in questo caso
unico non soltanto è forma del corpo ma anche forma spirituale. In
tal modo l’anima organizza nella
materia, e sopra la materia, l’essere dell’uomo, cioè l’essenza o
natura umana. «Questo nome “uomo” significa l’anima e il corpo in quanto che da
essi è costituita la natura umana» (S. Th., III, q. 60, a. 3 ad 1). «Dall'anima e dal corpo, uniti, è costituita la totalità della natura umana» (S. Th., III,
q. 52, a. 3 ad 2). «L’anima umana, ed è anima [forma], ed è spirito». (S. Th., I,
q. 97, a. 3). «E benché l’anima e il corpo convengono nell'essere unico dell’uomo, nondimeno questo essere lo ha il corpo dall'anima; in tal modo che
l’anima umana comunica al corpo il suo essere nel quale sussiste, perciò,
sottratto il corpo, rimane ancora l’anima» (De Anima, a. 14, ad 11).
L’anima,
in quanto forma spirituale, sorpassando tutta la capacità della materia,
immette anche nell'uomo la vita propria dello spirito: la vita intellettiva.
Essa mostra capacità aperte sulla totalità dell’essere: l’intelletto per
conoscere e la volontà per volere. Per queste l’uomo dilaga per
intenzionalità, su ciò che non riesce ad essere per essenza e riesce a
diventare «quodammodo omnia», come dice Aristotele (De Anima, III,
8 431b 21), «capax Dei cognoscendo et
amando», come dice Tommaso (Psal., 8, n. 4). Questa vita intellettiva
costituisce la differenza propria dell’uomo. Proprio in questa parte
spirituale, apparsa con potenze slanciate sulla totalità dell’essere, Tommaso
scopre nell'uomo la «imago Dei». E lo spiega così. Dio, agli enti che
più amava, li ha voluti con più pienezza di essere, e quindi più simili a sé,
che è l’Ipsum Esse per se subsistens. Ma non potendogli donare la
pienezza dell’essere metafisico, poiché avrebbe ripetuto se stesso, ha
escogitato la pensata dell’essere intenzionale, affinché questi enti
potessero raggiungere per intenzionalità quella pienezza di essere che non
potevano avere per essenza (De Verit., q. 2, a. 2). L’anima in quanto
forma non è solo il primo principio originario dell’essere uomo, essa è
anche il principio originario dell’agire da uomo. Essa dona, insieme
alla «totalitas essentiae», la «totalitas virtutis», da cui
consegue l’agire umano, perciò, ogni ente creato sperimenta un completamento
del suo «essere» nel suo «agire». Per cui Tommaso può dire: «agere
sequitur esse»; «ogni ente è in vista della sua operazione» (De
Caelo, III, 7 1097a 29).
Lasciamo la natura astratta universale
ed entriamo nell'ambito dell’individuo concreto, nella così detta «persona», che sarà definita come «rationalis naturae
individua substantia » (S. Th., I, q. 25). Tommaso ripete in continuità
che «persona», non è un nome fatto per designare una «ousia» (essenza, natura) astratta, ma
l’individuo concreto di un determinato tipo di «ouosia», quello cioè di natura intellettuale, nella totalità del suo essere e del suo
agire. «Come la nave si consegna al
pilota perché la governi, così l’uomo è stato confidato alla sua volontà e alla
sua ragione, come dice l’Ecclesiastico (15, 14): Dio in un inizio creò
l’uomo e lo lasciò in mano al suo consiglio» (1-2, q. 2, a. 5). «C’è questa
differenza tra l’uomo e gli altri animali, che il Signore ha dato all'uomo potere su se stesso. L’uomo può fare di se ciò che vuole, mentre gli
altri animali si muovono solo per istinto naturale. Ora la libertà cui è stato destinato
l’uomo naturale, non è una forza «cieca», ma è un movimento «razionale» che
nasce sotto lo «splendore della verità». La volontà e la libertà presuppongono
così la natura umana creata con questo desiderio di perfezione che spinge dall'interno a realizzare il bene totale dell’uomo in quanto uomo, che è appunto «il
bene della ragione». Sperimentiamo così che, nella storicità, non ci troviamo
come animali smarriti, ma illuminati in profondità, destinati a
realizzare il programma «uomo» già seminato in noi «in atto primo». Dice
s. Agostino: “Cammina attraverso l’uomo e giungerai a Dio”.
Tommaso descrive il cammino formativo
dell’uomo con questa definizione molto elaborata: l’educazione è «la
promozione della prole fino allo stato perfetto dell’uomo, in quanto uomo, che
è lo stato di virtù». «La natura non solo intende la generazione della
prole ma anche il suo sviluppo e promozione fino al perfetto stato
dell’uomo, in quanto uomo, che è lo stato di virtù. Perciò secondo il
Filosofo, noi riceviamo dai parenti tre cose: l’essere, il nutrimento e
l’educazione» (IV Sent., d. 26, q. 1, a. 1). Nel suo realismo, Tommaso evidenzia i «punti vulnerabili» e la
fragilità della natura umana da fortificare con gli abiti delle virtù cardinali:
la prudenza che rinforza la ragione, la giustizia la volontà, la temperanza il concupiscibile
e la fortezza l’irascibile.
La sensibilità è naturalmente ordinata
verso la bellezza dove il senso, più conoscitivo, anticipa e pregusta
idealmente il piacere più sublime. La sensazione gradevole del bello implica un
modo di sentire più perfetto: immateriale, contemplativo, altruista. Ma a
livello sensitivo questo assaggio del bene-fine offerto dal bello, rimarrà solo
«ideale, intenzionale» e non arriverà a darsi «in executione». Fra
tutte le virtù intellettive dovrà spiccare la sapienza,“quasi sapida scientia”(I, q. 43, a. 5 ad 2), che ha “funzione di capo fra
tutte le scienze” (VI Ethic., lc. 6), verso la quale dovrà principalmente
puntare l’educazione umana. Essa dovrà donare all'uomo la conoscenza
esperienziale profonda delle ultime cause, e quindi della ragione della sua
esistenza e del fine ultimo della sua vita, senza la quale la scienza e
l’educazione diventano un fallimento. La sapienza è, per Tommaso, un abito
sublime che, in certo modo, sintetizza trascendentemente e la perfezione
dell’abito naturale dell’intelletto, in quanto che adesso si mostra non
soltanto come capacità per vedere i principi indimostrabili della essenza delle
cose, quelli che si hanno per induzione, ma anche, e più profondamente,
come capacità di vedere i principi indimostrabili dello stesso essere, quelli che
si hanno per semplice intelligenza, come una capacità di cogliere i
principi dell’“ente”, intesso come sintesi di essenza ed atto di essere; e la
perfezione dell’abito della scienza esperta, in quanto che essa stessa appare
scienza sublime perfetta, capace di applicare la certezza trascendente dei principi
indimostrabili dell’ente ad ogni realtà possibile (VI Ethic., lc. 5 n. 9).
A conseguire questa educazione sono
destinate la “inventio” e la “disciplina” o arte dell’insegnamento
propria del Magister. Insegnare consiste essenzialmente in una
co-operazione che ha come supporto o premessa l’operazione intellettuale
del discepolo: come la medicina, che “conforta e somministra gli strumenti e
gli ausili che la stessa natura adopera per produrre l’effetto” (I, q. 117, a. 1).
Ma la stessa istruzione o educazione intellettiva per farsi “umanamente”,
dovrà avere conto delle virtù morali, sia che si attenda alla loro
genesi, al loro possesso o al loro uso. In questo modo le virtù intellettive,
che in sé sono più nobili delle morali, per diventare veramente virtù “umane”
dovranno integrarsi nelle virtù morali, che riguardano gli atti con cui
si raggiunge il bene umano: non tanto nella sua “idealità” o verità
conosciuta (veritas est “in mente”) su cui puntano gli atti conoscitivi,
quanto nella sua “realtà” o “bontà posseduta” (bonitas est “in re”) su
cui puntano gli atti appetitivi.
Oltre
l’educazione dell’intelletto, l’uomo ha bisogno anche di educare la volontà. L’educazione
morale prende su di sé questo incarico, facendo si che “l’uomo perfezioni la
parte appetitiva dell’anima, ordinandola al bene della ragione” (1-2, q. 59,
a. 4), puntando così al governo ragionevole di noi stessi. Adesso, come dice
Tommaso dell’Etica in generale: “non trattiamo di sapere che cosa è la virtù
solo per conoscere la sua verità, ma affinché acquistando la virtù
diventiamo buoni” (III Ethic., lc. 2); non si tratta di procurarsi
un buon sapere ma un buon appetire, instaurando nell'appetito l’inclinazione
costante ad agire bene: all'agire da uomini buoni, non “in un genere”,
ma “semplicemente buoni”.
Si ha un
principato politico e regale, quando si governano degli uomini liberi, i
quali, benché siano soggetti all'autorità di un capo, conservano tuttavia
qualche cosa di proprio, che dà loro la possibilità di resistere a chi comanda.
In maniera analoga si dice che l’anima governa il corpo con un dominio
dispotico, perché le membra di esso non possono per niente resistere al comando
dell’anima, ma immediatamente la mano o il piede si muove dietro l’impulso
appetitivo dell’anima; e così ogni membro, che per natura si muove dietro
l’impulso della volontà. Ora, noi affermiamo che l’intelletto, o ragione,
comanda all'irascibile e al concupiscibile con un potere politico:
perché l’appetito sensitivo ha qualche cosa di proprio, per cui può
resistere al comando della ragione. Infatti l’appetito sensitivo può subire
naturalmente anche l’impulso dell’immaginazione e del senso; e non soltanto
quello dell’estimativa, se trattasi degli animali, o della cogitativa
dell’uomo, che è governata dalla ragione universale. E infatti noi sperimentiamo
che l’irascibile e il concupiscibile si oppongono alla ragione, quando sentiamo
o immaginiamo un piacere che la ragione proibisce, oppure quando concepiamo una
cosa sgradevole che la ragione comanda. E così, sebbene l’irascibile e il
concupiscibile in alcune cose contrastano la ragione, ciò non esclude che anche
la obbediscano” (I, q. 81 a. 3 ad 2). “Appare così che
le virtù morali non sono in noi dalla natura, né sono in noi contro la natura;
ma incontrano in noi un’attitudine naturale per riceverle, in quanto che
la potenza appetitiva si trova in noi connaturata per obbedire alla ragione.
Esse raggiungono in noi il loro compimento mediante la consuetudine, dal
fatto che attuando ripetutamente secondo la ragione, la forma della ragione si
imprime nella potenza appetitiva, e quest’impressione non è altro che la
virtù morale” (II Ethic., lc. 1, n. 249). Ora l’ordine della
ragione, originato “in astratto o in indeterminato” dal primo principio
dell’intelletto pratico o sinderesi, che risuona nella coscienza con la
forza imperativa di un comando, non può raggiungere la concrezione conclusiva
degli atti umani, ed è destinato a risultare inefficace se non è condotto fino
a questo termine da una ragione pratica energica, dotata di un imperium
capace di stabilire i fini, verificando insieme e l’ordine della
ragione e la rettitudine degli appetiti incaricati di eseguirlo.
Il nome di
questa ragione pratica è “prudenza”; definita come una “recta ratio
agibilium”, che Tommaso chiama “auriga” di tutte le virtù morali (II
Sent., d. 41, q. 1, a. 1 ob. 3); un auriga che tiene un piede nella
ragione, discernendo fini e applicando mezzi, e un piede nell'appetito,
controllando emozioni che possono oscurare e deviare dal retto giudizio morale.
Perciò, la prudenza sarà insieme virtù intellettiva
e virtù morale, con
visione chiara nell'ordine dell’intenzione e con forza pratica nell'ordine dell’esecuzione. Ma la prudenza non
potrà in concreto stabilire bene il fine e determinare i mezzi nell'ordine dell’intenzione, mentre
perduri il disordine emotivo delle passioni. Deve quindi contenere sotto il
freno della volontà l’invasione di questo disordine emotivo, ma ciò dovrà farlo
anche mediante una moderazione ragionevole che porti l’animo ad uno stato di “temperanza”, al di sopra della sola “continentia”.
Mentre nella fase esecutiva dovrà
rinvigorire la volontà con amore del bene razionale capace di mantenere
docilmente sottomesso al suo impero l’appetito del bene sensibile, sia
concupiscibile che irascibile, con capacità di utilizzare le loro energie passionali
per il miglior rendimento dell’atto umano. Sorgerà, così, insieme alla prudenza, altra disposizione morale
della volontà che vuole realizzare, in ogni azione, il bene dovuto della
ragione (giustizia) e trova docilità moderata nel concupiscibile (temperanza)
e coraggio regolato nell'irascibile (fortezza).
Da tutto ciò,
appare chiaro il primato delle virtù morali nell'educazione umana che, facendo buona la volontà, rendono
anche semplicemente buono l’uomo
di questa volontà; mentre tutte le altre educazioni dell’uomo, la corporale, la
sensibile e l’intellettiva, rendono l’uomo buono soltanto sotto qualche aspetto, e raggiungono così
il rango di “educazione” nella misura che servono all'educazione morale. “La
prudenza secondo la sua essenza è una virtù intellettuale; ma secondo la sua materia
conviene con le virtù morali: essa infatti è una retta ragione delle cose da
agire” (1-2, q. 58, a. 3 ad 1).
Come potenza
subordinata alla ragione il senso diviene educabile. La ragione
deliberata deve poco a poco imporre alla sensibilità, a modo di abito virtuoso,
il giogo dello spirito. L’uomo è così chiamato anche a ricostruire la sua armonia originaria, l’unità interiore
anima-corpo, e a rinvigorire il suo ordinamento alla virtù.
[Foto: Charles
de La Fosse - Clizia trasformata in girasole]
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