Con il
linguaggio politico moderno è assai facile non avere conoscenza e comprensione
di quanto si discute. È addirittura possibile rimanere nella più totale
ignoranza delle cose, il motivo è dato dal fatto che nemmeno chi discute molte
volte ha scienza e conoscenza di ciò di cui tratta. Consideriamo il termine di
“Stato” per capire anche di che cosa noi ci nutriamo, se il nutrimento è di
verità conoscitiva, capace di farci edificare e ragionare su eventuali mutamenti
e opportunità di trattamenti nella vita del bene comune, oppure se il
nutrimento è legato all’appagamento del momento del proprio bene del soggetto
politico, con contorno di volontaria ignoranza delle cose e l’aggravante della
permanente generalizzata non data conoscenza.
Un sintetico
excursus nel campo del pensiero e dei pensatori illumina la comprensione. Non è
un termine nuovo “Stato”, era usato già da Cicerone, ma oggi assume un
significato completamente nuovo. Esso, infatti, non indica più la condizione,
cioè lo status in cui qualcuno, per
esempio la stessa società politica, viene a trovarsi, bensì l'istituzione,
collocata al suo apice, nella quale si concentra l'intero potere politico.
Nell'espressione ciceroniana optimus
status civitatis, il riferimento politico non è contenuto nel termine status, bensì nel termine civitatis, che indica appunto la società
politica.
Il concetto
moderno di Stato è teorizzato per la prima volta dal filosofo e giurista
francese Jean Bodin, che lo caratterizza mediante l'attributo della
“sovranità”, in precedenza riconosciuto soltanto a Dio. Il termine medievale
“sovrano” indicava, infatti, chi è superiore a tutti gli altri e non ha nulla di
superiore a sé, perciò si applicava soltanto a Dio. Per Bodin, invece, il
principe, cioè lo Stato, è immagine di Dio, e quindi è, come Dio, “sovrano”,
vale a dire superiore all'intera società politica e non riconoscente alcuno
come superiore a sé. L'identificazione dell'antica “società politica” con il
nuovo “Stato” avviene per opera del filosofo britannico Thomas Hobbes, che da conoscitore di
Aristotele, precisa che il “corpo politico”, o “società politica”, è ciò che i
Greci chiamavano polis ma, al contrario di Aristotele, considera questa società
non come naturale, bensì come artificiale. Per Hobbes, infatti, gli uomini per
natura non sono socievoli, cioè non sono animali politici, bensì sono come lupi
l'uno nei confronti dell'altro homo homini lupus, e solo per mezzo di un
patto, cioè il contratto sociale, passano dallo “stato di natura” allo “stato
civile”, o “politico”, dando origine alla società politica. Questo patto
tuttavia, secondo Hobbes, proprio per la natura non politica dell'uomo, deve compiersi
mediante la rinuncia, da parte dei singoli individui, a tutti i loro diritti e
la cessione di questi a un individuo solo, che è appunto il “sovrano”, il quale
così assomma in sé la totalità del potere politico. La società politica, cioè
l'insieme di tutti gli individui, viene così a coincidere con lo Stato, cioè
con il sovrano.
L'identificazione
tra società politica e Stato, che in Hobbes è unita a una concezione
assolutistica di quest'ultimo, permane anche in John Locke, padre del
liberalismo. Anche Locke ammette, al pari di Hobbes, la contrapposizione fra
“stato di natura” e “stato civile”, benché rigetti di trasferire allo Stato,
prodotto dal contratto sociale, tutti i diritti dei singoli individui, anzi
cerca di ridurre al minimo il potere dello Stato, per lasciare la massima
libertà possibile agli individui. Essa permane anche in Jean-Jacques Rousseau,
fondatore della democrazia moderna che, pur rovesciando la valutazione di Hobbes
dello “stato di natura” e dello “stato civile”, ammette ugualmente la necessità
di un contratto sociale per sviluppare la società politica e considera migliore
fra tutte quella società politica in cui tutti gli individui cedano i propri
diritti alla ‘volontà generale’, diventando in tal modo una specie d’individuo
unico, chiamato ‘corpo politico’, poiché soggetto alla legge, e ‘sovrano’, poiché
autore di essa, ma in entrambi i casi anche “Stato”. La stessa identificazione
si ritrova in Immanuel Kant, secondo il quale la totalità degli individui
riuniti sotto un sistema di leggi si chiama “Stato”, che questo è il prodotto
di un contratto per mezzo del quale gli individui escono dallo “stato di
natura” ed entrano nello “stato civile”, e che i membri della società politica,
in altre parole dello Stato, si chiamano “cittadini dello Stato”.
Ebbene, questa
istituzione, lo “Stato”, che con la sua presenza ha dominato l’intera storia
politica moderna, sta dando segni inequivocabili di declino. Causa di ciò è
essenzialmente la perdita, da parte dello Stato, della sua prerogativa più
caratteristica, cioè la sovranità. Condizione della sovranità, infatti, è l’autarcheia, l’autosufficienza interiore del saggio, che già per Aristotele era la caratteristica
della “società perfetta”, cioè della polis.
Ora, lo Stato
moderno, nel suo tentativo di identificarsi con l'intera società politica,
assorbendo in sé la totalità dell'iniziativa politica, ha dovuto assicurarsi
l'autosufficienza, prerogativa propria per definizione della società politica,
estendendosi, rispetto alla polis antica e ai comuni medioevali, sino all'intero
ambito della nazione. Sono nati così, nel corso dell'età moderna, lo Stato
francese, quello spagnolo, quello britannico e, ultimi quello italiano e quello
tedesco, cioè i moderni Stati nazionali europei. Le due ultime guerre mondiali,
causate dagli Stati nazionali europei ma allargatesi sino a coinvolgere il
mondo intero, hanno tolto agli Stati nazionali l'autosufficienza, sia nei
rapporti esterni sia in quelli interni. Nei rapporti esterni, cioè tra Stati,
si è avviato, infatti, un processo di limitazione della sovranità degli Stati a
favore di comunità politiche supernazionali. Nei rapporti interni ai singoli
Stati questi hanno ugualmente dovuto accettare limitazioni della propria
sovranità, riconoscendo forme sempre più ampie di autonomie regionali e locali.
All'interno degli Stati, inoltre, è in atto un processo che sembra portare alla
fine della contrapposizione fra società civile e Stato, nel senso che la
società civile si fa sempre più società politica, recuperando dallo Stato
quell'iniziativa politica della quale essa era stata originariamente privata.
Alla sfida per
la vita politica contemporanea, derivante dalla crisi dello Stato nazionale, è
in grado di far fronte il concetto di “bene comune”, elaborato da Tommaso
d’Aquino. Nel commento all’Etica Nicomachea Tommaso sostiene che,
essendo l’uomo per natura animale sociale, giacché ha bisogno per la sua
vita di molte cose che da solo non può procurarsi, ne consegue che per natura egli
è pars alicuius multitudinis, dalla quale riceve aiuto per “vivere
bene”. Questa “moltitudine” è anzitutto la domus, la Famiglia, ma c’è
anche un’altra “moltitudine” di cui l’uomo è parte, dalla quale egli riceve aiuto
per la “perfetta sufficienza della vita”, e non solo per vivere, ma anche per
vivere bene: questa è la Civitas, dalla quale l’uomo è
aiutato non solo quanto ai bisogni materiali, ma anche quanto ai bisogni
morali, per esempio nel senso che la criminalità per mezzo della publica
potestas è tenuta a freno col timore della pena. Si noti tuttavia che la
società cui Tommaso fa riferimento non
ha nulla a che fare con lo Stato nel senso moderno del termine, ma è la civitas,
traduzione letterale della polis aristotelica, che indica non
l’agglomerato urbano, e nemmeno il territorio, bensì l’insieme dei cittadini,
la multitudo. Il fine
dell’autorità politica è il bonum commune multitudinis, che consiste,
anzitutto, nella pace.
Pertanto, poiché
la società politica non è una sostanza, piuttosto una relazione, il bene comune
cui pensa l’Aquinate è il bene di tutti e di ciascuno, il sommo bene virtuoso,
un bene che non deve mai togliere all’individuo quello che gli è essenziale: la
sua dignità. Per questo è necessario, con scienza e coscienza, affrontare le
problematiche che rendono sempre più privo l’uomo della Famiglia e della Civitas, in seno ad uno “Stato” che deve
ritrovare la sua identità e finalità di costrutto. Ecco che una visione di
lungimiranza della Famiglia e della Civitas
ferma il pensiero alla più profonda comprensione del bene, soprattutto a mai
ignorare che l’istituzione ha la gravità di una responsabilità enorme da
gestire pro individui e pro collettività, per il bonum commune multitudinis.
[Foto: Gustave
Moreau, Giove ed Europa, 1869]
Interessantissimo e attualissimo dossier sul potere nel numero nuovo di Focus, attualmente in edicola... lo consiglio!
RispondiEliminaTi ringrazio ...lo leggerò. Buona giornata!
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