Perché il sistema politico mitiga lo
sviluppo economico? Perché frena in modo innaturale lo sviluppo delle
imprenditorialità sui territori? Perché si è alimentato un senso distorto di
economia che ha determinato lo schianto di interi Stati, quando invece l’unione
degli Stati nell'Europa è vantaggio grandioso per lo sviluppo di ognuno, e si è
scivolati verso una crisi mondiale, che ha causa proprio nell'uso contorto del
denaro, di un sistema finanziario esploso per il suo stesso fine: soldi fanno
soldi, fino a che, evanescenti come nubi, si sono liquefatti.
La finalità
economica di ogni realtà nazionale non è fare soli con soldi, i soldi servono
per fare impresa, per essere spesi, per investire e far progredire i propri
cittadini verso un degno bene stare, secondo il proprio di ognuno e in modo
equo, diversamente sono mercimonio ad uso dei soliti consociativi sistemi
corroboranti, assuefatti ad apparati para politici, espressione di egoismo e
ipocrisia. Certo diventa difficile comprendere se si fa parte di una realtà
sociale di bene comune.
Ci si chiede, allora, per cosa serve la politica? A cosa
servono i soldi? La comprensione del giusto intendere ha per finalità il bene
comune.
Tommaso
d’Aquino ci illumina con un pensiero semplice ma efficace per lungimiranza e
bontà d’intendimento.
La politica è la scienza di ciò che
l’uomo, come animale sociale, deve essere e fare “agere sequitur esse”,
orientandosi verso un determinato fine. Per l’Aquinate la filosofia politica è
una scienza pratica, che detta i principi per agire, non al singolo individuo,
come l’etica generale, ma al
cittadino che vive in una società e che deve operare da uomo sociale e non come individuo privato. S.
Tommaso insegna che la politica è una scienza necessaria poiché è finalizzata a
dare un’organizzazione agli uomini. Difatti, la disorganizzazione produce
disordine, conflitti continui, la pace interna è, piuttosto, la “tranquillità dell’ordine” (S. Agostino).
L’Aquinate, dopo aver costatato che
molti uomini pongono il loro fine ultimo nelle ricchezze, ci invita a una
riflessione volta a dimostrare l’impossibilità che la felicità umana possa
risiedere proprio nelle ricchezze. Se per ricchezze s’intendono quelle ‘artificiali’,
cioè “quelle che per sé non giovano alla natura umana, come il denaro, ma
l’ingegno umano le ha inventate per facilitare gli scambi commerciali”, è
evidente che non possono costituire il fine ultimo e la felicità dell’uomo,
perché “nessuno le cercherebbe se non servissero per acquistare le cose
necessarie alla vita”. Le ricchezze ‘naturali’, invece, sono quei beni con i
quali “l’uomo è aiutato a soddisfare dei bisogni naturali: come il cibo, la
bevanda, i vestiti, i mezzi di locomozione e di trasporto, le abitazioni e
altre cose di tal natura”. (S. Th., I-II, q. 2, a. 1). È evidente che
queste ricchezze sono destinate al necessario sostentamento dell’uomo e quindi,
anche avendone in sovrabbondanza, non danno la felicità. Per quanto l’uomo
possa accumulare una quantità enorme di beni materiali, non riesce poi a usarli
e consumarli tutti. Ciò non toglie però che il desiderio di ricchezze possa
diventare insaziabile e, quindi, in un certo senso infinito, anche se, giacché
insaziabile, è contro natura, poiché sono sufficienti pochi beni per soddisfare
i bisogni materiali. Se, da un lato, l’insaziabilità e l’insoddisfazione
denotano un desiderio deviato da una concupiscenza disordinata, dall'altro,
testimoniano che l’uomo, oltre ai bisogni materiali, ha anche un desiderio dell’infinito (S. Th., I- II, q. 30, a. 4). Per Tommaso il commercio è
un tipo di attività naturale e legittima perché è necessaria per vivere e, riguardo
a ciò scrive: Aristotele dice che il commercio non è necessariamente contro
natura, perché riguarda i beni amministrati naturalmente; d’altra parte, esso
non è neanche l’arte di arricchirsi, perché non è fatto per i soldi. Che non
sia contro natura è dimostrato dal fatto che l’attività commerciale serve a
rendere gli uomini autosufficienti, facendo in modo che, mediante tale
attività, ognuno riesca ad avere quelle risorse che sono necessarie e
sufficienti al mantenimento della vita umana. (In libros Politicorum
expositio, lib. 1, lectio 7, n. 6). Al contrario, esiste un’attività
economica che è contro natura, ed è quella che non è fatta per soddisfare
quanto è necessario alla vita umana, che non è controllata, ma diventa un
desiderio sfrenato all'arricchimento, oltrepassando il limite.
Vi è una connessione
tra questo concetto di innaturalità economica e il concetto di ingiustizia: se
ognuno avesse un’attività economica rispondente alle proprie necessità, sarebbe
rispettato quel principio dell’eguaglianza perfetta “a ciascuno il suo”, e si
eviterebbero così diseguaglianze e contese. Semplificando: la proprietà privata
compete alla natura sociale umana, il possedere beni privatamente è necessario
per la vita umana per tre motivi: in primo luogo, perché ciascuno tiene più a
curare le proprie cose rispetto a quelle appartenenti a tutti e perché ciascuno
per sfuggire alla fatica tende a lasciare agli altri ciò che appartiene al bene
comune; in secondo luogo perché le cose umane si svolgono con maggior ordine se
a ciascuno è assegnato un compito in relazione alla propria capacità; e,
infine, perché così si garantisce la pace fra gli uomini, in quanto ciascuno si
accontenta delle proprie cose. (S. Th., II- II, q. 56).
L’assunto dell’Aquinate è luminoso e moderno:
ciascuno si contenti di quello che ha e se lo curi, nell'ambito dell’ordine sociale in cui è inserito, così da dar luogo a quell'armonia da cui nasce il
bene comune. Tommaso educa al concetto di uso sociale della proprietà,
precisando che ogni uomo ha il dovere di far partecipare gli altri all'uso delle cose proprie in relazione alle ‘altrui necessità’. La colpa, dunque, non
sta nella ricchezza, piuttosto nel suo abuso che, naturalmente, ha delle
fortissime implicazioni morali e politiche. La visione tomista difende,
pertanto, la proprietà privata, unendola all'uso sociale di essa. Ecco dunque che, per il bene comune: “Il singolo non basta a sé per vivere” (De
regimine principum, Lib. I, cap. 1), e che la politica è la scienza di
ciò che l’uomo, come animale sociale, deve essere e fare “agere sequitur
esse”, orientandosi verso un determinato fine di bonum facere.
[Foto: Pieter Paul Rubens, Giudizio di Paride,
1639]
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