L’epicheia è “degna di lode” dice s. Tommaso d’Aquino, seguendo Aristotele;
è una superiustitia per s. Alberto
Magno, che è necessario chiamare in causa quando una legge umana deficit propter universale aliquo modo
contrarie. L’epicheia è una virtù che sta tra due estremi viziosi: la
rigidità legalistica, che può arrivare ad essere gravemente lesiva del bene
comune, e il lassismo di colui che senza fondamento valido considera lecito per
sé ciò che la legge vieta agli altri.
La figura dell’epicheia in Platone viene
intesa come virtù esclusiva del governante, ben diversa dalla virtù morale
propria dell’uomo in quanto tale che sarà prospettata da Aristotele. Per l’Aquinate l'epicheia è una
virtù, vale a dire, un principio della ragione pratica che rende possibile la
posizione di atti buoni ed eccellenti in
tutte le situazioni in cui si ha a che fare con un'espressione linguistica
normativa deficiens propter universale.
Con parole di s. Agostino, la virtù è una buona qualità dell'anima qua recte vivitur, qua nemo male utitur,
non può essere usata per il male.
Dunque, l’epicheia è una virtù morale
dell’uomo, di ogni uomo e non specificamente del governante; è una disposizione
dell’uomo virtuoso, vale a dire, una delle virtù del ben vivere o della vita
buona. Da ciò segue che l’epicheia non è, sul piano sostanziale, qualcosa di
meno buono o di meno rigoroso che, in alcuni casi, tenute presenti le
circostanze, può essere più o meno tollerato. Essa, come virtù, è il principio
che permette la formazione di una scelta non solo buona, ma addirittura
virtuosa, e quindi eccellente e ottima. Perciò dice
Aristotele che «l’equo è giusto, anzi migliore di un certo tipo di giusto».
Quando si presenta il caso, l’epicheia non è qualcosa che può essere benevolmente invocata, ma è il
principio necessario dell’unica scelta che, in quel caso, è giusta e virtuosa;
senza di essa la scelta sarebbe stata moralmente negativa.
Aristotele presenta l’epicheia come
perfezione e coronamento della giustizia, e non come una tecnica interpretativa
per diminuire le sue esigenze etiche. La definisce come un correttivo della legge,
laddove la legge è difettosa a causa della sua universalità. Tuttavia Aristotele
stesso sottolinea che il problema non è correggere un errore insito nella legge, ma dirigerla a una giusta applicazione al caso.
Afferma Aristotele «non si può attribuire a determinati contenuti del diritto
la dignità e l’immutabilità del diritto naturale».
S. Alberto Magno si muove sulla scia
aristotelica quando afferma che l’epicheia è una virtù morale dell’uomo in
quanto tale, e non del governante o del legislatore. Per s. Tommaso le virtù
sono le basi delle norme, e che una norma è giustificata quando esprime
fedelmente le esigenze positive o negative della virtù, giacché il fine delle
norme è quello di aiutare gli uomini a acquisire e praticare le virtù (S. Th.,
I-II, q. 94, a. 3). Ciò permette anche di capire che l’Aquinate concepisce la
legge come un principio positivo. Il suo atteggiamento non è quello di colui
che pensa alla legge come a un inevitabile limite della libertà. La legge è per
s. Tommaso un principio di formazione della libertà umana in ordine al
raggiungimento di una vita umana e cristiana ben riuscita all’interno di una
comunità. La legge è il cammino verso la pienezza della vita cristiana.
I criteri per i quali l’epicheia si
regola sono: la ratio
iustitiae e la communis utilitas. È virtù
perché principio di un’opera buona e necessaria: nei casi in cui essa opera
«malum esset sequi legem positam». L’epicheia non è un generalizzato
atteggiamento di benevolenza, cioè non consiste nel “chiudere un occhio”; essa
evita un’osservanza letterale della legge quando osservare letteralmente la
legge “vitiosum est”; altresì comanda di andare oltre la lettera della legge
quando l’osservanza letterale del precetto dia luogo a un comportamento o a una
situazione positivamente ingiusta o cattiva. Il pensiero morale di s. Tommaso è
basato certamente sull’idea di ordine, ma di un ordine che richiede la presenza
attiva dell’uomo come suo vigile custode. Attraverso la virtù dell’epicheia
«l’uomo coopera al mantenimento di quest’ordine, per ciò che è ordine umano,
nelle sue finalità proprie, quindi nella sua razionalità, quindi nel suo essere
rivolto a Dio. La libertà che dona l’epieikeia è quella stessa libertà che si
identifica paradossalmente con l’ubbidienza più piena, anche se ‘piena’ non
significa necessariamente ‘letterale’, la libertà di seguire la “prima regula,
qua regulantur omnes rationales voluntates”, cioè la stessa divina voluntas (S. Th., II-II, q. 104, a. 1,
ad 2), quella che costituisce l’uomo “secundum quod et ipse est suorum operum
principium, quasi liberum arbitrium habens et suorum operum potestatem” (S. Th.,
I-II, prol.)».
A partire dal secolo XIV si va
affermando progressivamente nelle grandi università europee l’orientamento
volontarista. Nella tradizione volontarista nasce
un nuovo modo di esporre scientificamente la morale cattolica. In esso acquista
particolare rilievo la figura del legislatore, che con la sua volontà
stabilisce precetti e impone dei fini. L’epicheia appare nuovamente collocata
in un contesto politico, come virtù del supremo reggitore, dove «sembra da una
parte identificarsi con la clemenza, secondo quella che fin dall’antichità era una
delle sue molteplici anime, ma dall’altra sembra trascurare l’attenta
fenomenologia della giustizia legale nel suo impatto con il concreto che
costituisce indubbiamente l’aspetto più tipico della virtù nel senso
aristotelico-tomistico». Dalla superiustitia di s. Alberto si passa ad una
concezione dura dell’epicheia. Essa non è più la possibilità che ha l’uomo di
far appello al reale (alla ratio
iustitiae e alla communis utilitas), bensì «la
bandiera della liberazione del soggetto da precetti che gli vengono
ingiustificatamente imposti».
L’epicheia, nel senso aristotelico e
tomista, tende a scomparire, perché viene sostituita dall’interpretazione della
legge e dalla dispensa espressa o tacita. L’epicheia acquista una valenza
fortemente polemica nel pensiero di Guglielmo di Ockham, avversario del potere pontificio
e sostenitore della causa imperiale. Per la vis
polemica di Ockham, funzione
principale dell’epicheia è liberare il soggetto dall’osservanza della legge. E
il motivo fondamentale è che per Ockham «compito dell’equità non è più la
ricerca della giustizia, la volontà da parte del soggetto di farsi giusto, il che giustificherebbe la qualifica
dell’equità come virtù, ma il discernimento dei casi in cui “leges sunt
servandae” o meno. Non più dunque, come per l’Aquinate, come applicare la legge, ma se applicarla o no. L’equità non più
dunque come valore morale, ma al più come valore politico».
Il bene comune è sempre l’oggetto
dell’intenzione del legislatore. La legge è fondamentalmente opera della
ragione, e in virtù della sua razionalità mirante al bene comune obbliga le
coscienze e, con s. Tommaso, non può non intendersi la legge come ordinatio
rationis ad bonum commune. Pertanto urge, nel tempo reale attuale, un’inversione
di tendenza e applicazione pratica dell’epicheia nel senso aristotelico e
tomista, ciò non può che fare bene al bene comune, al legislatore a vantaggio
del valore morale per la communis
utilitas, piuttosto che per la personale utilitas. Un nobile criterio di equità intra leges fa progredire un più sano sviluppo umano, bene primo
cui deve tendere il bonum facere
politico, poiché, con s. Tommaso, ’epicheia è “degna di lode”;
è una superiustitia con s. Alberto
Magno, che è necessario chiamare in causa quando una legge umana deficit propter universale aliquo modo
contrarie.
[Foto: Claeissens Antoon – Il Giudizio
di Salomone]
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