venerdì 24 giugno 2022

L'importanza del Christus Patiens, nell'affresco della Chiesa S. Giovanni in Cirò, oggetto di improprie attribuzioni

Durante lavori di ristrutturazione nell’antica Chiesa matrice, s. Giovanni Battista, in Cirò, è stato rinvenuto un affresco che restituisce alla storia del territorio un'opera raffigurante un Santo Vescovo del sec. XV, come l’architetto Pasquale Lo Petrone, che ha scoperto l'affresco, definisce l’immagine. Ma viene smentito. Oggi l'affresco lo mutano in Santo abate per perniciosa forzatura nel nome. Ma vedremo come, lo stesso Santo abate, nominato forzatamente da esperti, smentisce attribuzioni. 

È inutile deviare dalla verità storica, è inutile deviare la Cultura sana per forzare una storia improbabile. Almeno avere la decenza di valorizzare l’opera, dovere importante in sé, senza attribuzioni nominali che sono chiaro segno di disonesta perniciosità.

L'opera merita d’essere studiata davvero, soprattutto per la presenza del particolare del medaglione centrale raffigurante il Christus patiens.

Relazionai a riguardo, che l’affresco presenta tre segni importanti indicativi: la mitria, il Christus patiens, il gesto benedicente della mano destra. L’eccezionalità è espressa nel medaglione centrale contenente la raffigurazione del Christus patiens. È nello splendido medaglione la risposta di chi in questo dipinto è rappresentato, evitando forzature e battesimi impropri, fuori dai temi, occorre restare attinenti a testo e contesto storico. La spiritualità generata dal Christus Patiens, il suo significato implicitoracconta chi è il soggetto raffigurato.

Perché si insiste su s. Nicodemo?! Dai segni, e dal tempo, dunque, non si può prescindere, questo gli studiosi avveduti lo sanno bene! Non si devia dalla conoscenza, non è onesto intellettualmente!

Vediamo raffigurato un Santo, e la storia narra che religiosi come i monaci abati, non avessero in uso mitrie, almeno fino alla seconda metà del XII secolo, e l’affresco, secondo chi lo ha scoperto, abbiamo visto, è afferente al XV secolo. Dimenticavo che è stato smentito, poiché deve appartenere ad altro tempo.

Circa il gesto benedicente: la Chiesa romana optò per un segno benedicente in cui pollice, indice e medio sono diritti verso l’alto con le altre dita piegate sul palmo. Le tre dita tese corrispondono al Padre, al Figlio e allo Spirito Santo: la Trinità. La Chiesa ortodossa, invece, adottò un segno più complesso. In cui ogni dito era posizionato in un particolare modo per formare il monogramma IC XC, abbreviazione del nome greco Gesù Cristo. Pertanto, nel segno benedicente della mano destra delle icone bizantine, il pollice tocca o sfiora l’anulare; l’indice è alzato verso l’alto; il medio e il mignolo sono lievemente piegati. Così la mano del prete forma le lettere iniziali e finali delle parole “Gesù Cristo”; ricordando l’associazione delle tre Persone della Trinità e le due nature di Cristo.

Ergo: nella raffigurazione del Santo Vescovo/Abate il segno benedicente è afferente al rito latino, non è, dunque, conforme al rito bizantino, cui invece Nicodemo fa riferimento.

La mano sinistra pare sorreggere lo splendido medaglione, contenente il Christus Patiens. Come la storia dell’arte riporta, occorre considerare la differenza tra il Christus patiens, proprio della cultura occidentale, e il Christus Triumphans, afferente alla cultura orientale bizantina. È noto che il tema iconografico si sviluppò nell’Oriente bizantino, passando in Occidente in un secondo tempo, nel corso del XIII secolo.

Per maggiore chiarezza, poiché edificare in conoscenza la propria Comunità, ricordo,  è segno di rispetto, ci disponiamo a considerare la differenza tra il Christus patiens e il Christus Triumphans.

Christus triumphans: è noto che l’iconografia del Christus triumphans prevede il Cristo eretto inchiodato alla croce con gli occhi aperti. Essa mantiene uniti i due momenti essenziali del mistero salvifico pasquale: la morte e la resurrezione di Gesù. Alcune effigie lo mostrano con le mani spalancate nell’atteggiamento dell’orante e con gli occhi aperti: Christus crucifixus vigilans, segno della sua natura divina. In alcuni casi è raffigurato su una croce di luce; secondo una consuetudine iconografica che unisce l’immagine del Cristo inchiodato sulla croce a quella del Redentore che torna nel giorno del Giudizio finale. Trova poi nell’arte ottoniana una variante quale Cristo sommo sacerdote, sulla croce. Raffigurato in posizione eretta e vestito di una tunica, a mani aperte, inchiodato con quattro chiodi. Sul finire dell’VIII secolo, Cristo può apparire su una croce d’oro decorata con perle e gemme preziose, Crux gemmata, per rievocare, oltre al sacrificio, la luce della parusía. A partire dall’XI secolo, tale tipologia si arricchisce agli estremi della croce con le immagini del tetramorfo, dal greco τετρα, tetra, quattro, e μορφη, morfé, forma. Si tratta di una raffigurazione iconografica di origine orientale, frequente nell’arte bizantina, costituita dall’insieme dei simboli dei quattro Evangelisti: un uomo alato, S. Matteo; un leone, S. Marco; un toro (o vitello), S. Luca; e un’aquila, S. Giovanni.

Christus patiens: la prima immagine del Cristo morto risale all’VIII secolo. Come testimonia una tavola del Monte Sinai che raffigura Gesù col volto sereno e gli occhi chiusi. Ma è sul finire del XII e inizi del XIII secolo, che si comincia a sottolineare la sofferenza fisica di Cristo; con l’iconografia del Christus patiens. Già con S. Anselmo d’Aosta, teologo e dottore della Chiesa, si hanno i presupposti per una rappresentazione del Cristo crocifisso sofferente e morto. Ma è soprattutto con S. Bernardo di Chiaravalle, fondatore dell’abbazia cistercense di Clairvaux, che il Cristo crocifisso diviene il punto di partenza della meditazione mistica. Bernardo vede nella vita di Cristo una via di dolore che conduce alla croce. Ecco che, la mistica della sofferenza e della croce diviene un momento centrale della riflessione cristiana, soprattutto per opera dei Francescani. Promotori di una religiosità umanizzata, contraddistinta dalla componente emotiva, i Francescani ricorrono spesso a immagini che, attraverso un linguaggio emozionale, possano toccare e commuovere il fedele, avvicinandolo alla Chiesa.

Concludendo, l’iconografia del Christus triumphans, di derivazione bizantina, assumerà connotati diversi, e si evolverà in quella successiva, di genesi latina, del Christus patiens. Ciò segnerà l’introduzione della manifestazione dei sentimenti nell’arte occidentale.

Chiariti questi concetti basilari, possiamo argomentare circa opportunità di attribuzione di nomi all'effige. Visto però il permanere di un insano senso di possesso della figura di  s. Nicodemo, che a tutti i costi, anche di carte false, se ne vuole possedere 'proprietà', possiamo argomentare ulteriori ragionamenti.

S. Nicodemo è conosciuto e 'venerato' a Cirò dal 1696, prima non si sapeva chi fosse, comunque non se ne conosceva esistenza! E ricordo che non è nato a Cirò,  né mai qui venuto. Chi avrebbe voluto rendere presenza a chi non si conosceva in un tempo antecedente, visto che l'affresco è databile del XV sec.? Quale algoritmo porta ad una attribuzione del nome Nicodemo? I caratteri dell'affresco sono latini perché forzare una derivazione bizantina in territorio vergine di bizantinismo? Ma scommetterei sul fatto che qualcuno degli empi si ingegnerà a realizzare mosaici bizantini da qui a poco!

Suggerisco cari cultori/avventori, visto che parlate di Santo abate, di pensare oltre la perniciosità e ragionare su una più logica e opportuna attribuzione visto i caratteri spirituali, di trascendenza da approfondire, la storia che in sé racchiude il Christus patiens, il testo e contesto del tempo. Suggerisco anche una proposta indicativa, direi una più sana via di pensiero, se proprio si vuole nominare l'affresco e ragionare, per esempio, perché no, sull'ABATE GIOACCHINO DA FIORE se proprio di abati volete parlare. Chi di lui ne ha approfondito conoscenza, troverà riscontro di attribuzione in quegli stessi segni latini, e nel Christus patiens, impreziosendo altresì raffronti sulla natura del ritrovamento.

Cirò, la sua antica Chiesa matrice, si arricchisce di un bene artistico dai segni latini: un affresco da visitare, assai prezioso per la storia e cultura del territorio. I gerosolimitani, nel XII sec. hanno voluto regalare questa Chiesa a Cirò. La loro presenza è stata preziosa, all'insegna della virtù della carità da praticare e, tale virtù si pratica soprattutto nell'umiltà e non nella forzatura di definizioni. Cirò è un Bene Comune e come tale non si può pensare di trattarlo come un bene personale, il possesso non dona mai luce, offusca e confonde. Inoltre, ciò che fa destra non sappia sinistra, è un antico canone di umiltà che viene continuamente dimenticato, ma capisco che per alcuni l’autoincensazione è segnare impropriamente il territorio non 'suo'.

Cirò  non venga ridicolizzato, ritrovi la luce vera, l'amore di Dio, il senso del sacro, partendo proprio dal Christus patiens. Si rispetti il pulpito della Chiesa. Cirò ritrovi la luce soprattutto in ambito Culturale, dove tanto c’è ancora da realmente  conoscere, in verità. Alla Comunità, che non va considerata con l'irrispettoso anello al naso, va data sana conoscenza e reale speranza di gestione del bene comune. E, soprattutto, in un luogo sacro si deve dire la Verità, questi luoghi SI SERVONO e non ce ne si serve!

Prego chi ha elaborato il lavoro di considerare quanto su attestato. E rimango a disposizione per ogni onesto confronto.

Maria Francesca Carnea 


 

 

 

 

 

 

 

Nessun commento:

Posta un commento