Gesù, seppure inchiodato sulla croce, dolente dolori atroci, fino alla fine ci tiene nel cuore, fino alla fine ci esorta a scrutare quell’oltre che esige verità. Lo fa con una piccola quantità di parole, sette espressioni riportate nei Vangeli che ci interrogano, ci richiamano con pregnante realismo al più savio discernimento. Entrare dentro queste espressioni conduce a un cammino spirituale, richiama alla fede e sollecita al desiderio di comprendere la potenza dell’amore. Egli lascia che sia la nostra inquietudine ad attraversare la profondità nella sua grazia, e percepire il suo volere salvifico.
1. Padre, perdona loro perché non sanno quello che fanno. (Lc 23, 34)
Gesù chiede al Padre di perdonare, riconosce una umanità limitata, che ha scelto Barabba lasciando colpire un innocente; popolo avverso e incapace di discernere. Al Padre, il Cristo, affida il perdono, la misericordia parla nel cuore di Gesù che comprende, nonostante la grande sofferenza, che quanti lo hanno ingiustamente condannato, calunniato, oltraggiato, non sanno, non hanno sapere, non lo conoscono il Dio dell’amore, quel Dio che amando chiede che chi ‘ignora’ venga perdonato a causa della sua ignoranza, ecco, non sanno quello che fanno. Rinviene in essi la colpa del non sapere, dell’ignorare, chiede di perdonare non di giustificare. Eppure, i sacerdoti che contestavano Gesù pregavano il Dio dei Padri, ma ancora oggi bisogna chiedersi: in quei cuori chi dimorava?! Non credo affatto fosse il Dio di Abramo. Del ‘sapere’, quanti lo hanno giustiziato, non hanno voluto essere istruiti, piegati com’erano su se stessi, su paure insane, sulla presunzione che confonde, istigati a ridicolizzare, ingiuriare la venuta del Figlio. Non trova voce l’abisso tra verità e falsità, argomento che ancora ai nostri giorni non trova equilibrio, per comodità, predilezione immonda di insani egoismi. Non è Gesù che perdona, ma Gesù chiede a Dio Padre di perdonare, parla l’uomo, il fratello, lo spirito di carità che rende ancora una volta umiltà alla propria vita, alla propria condizione di uomo, riconoscendo che il perdono, per i fratelli in Cristo, all’azione grave e ingiusta, compete solo a Dio onnipotente.
2. In verità io ti dico: oggi con me sarai nel paradiso. (Lc 23, 43)
Immensa in Croce la misericordia di Gesù, le sue parole ne trasudano. Lascia cadere le provocazioni di uno dei malfattori, e risponde con una certezza all’altro. Probabile fossero zeloti, così denominati per il loro zelo a difesa della libertà ebraica, mentre i romani li additavano come sicari, a causa del pugnale corto, in latino sica, con il quale perpetravano i loro attentati, anch’essi probabili rivoluzionari contro il potere di Roma. L’uno ha compreso, ha saputo discernere il giusto dall’ingiusto, identificare un innocente; l’altro dei malfattori è rimasto nel suo buio, nell’ottusa oscurità perdendo l’occasione di redimersi al cospetto di Nostro Signore. Per analogia, comparando ai tempi attuali, troviamo così tanti prigionieri del proprio buio, fermi al soddisfare i propri egoismi criminali, sporchi, e a interpretare un loro dio esecutore del proprio egocentrismo. Ma è la rivoluzione attuata da Gesù che stravolge il tempo, pietra d’angolo potente che traccia le fondamenta di una innovazione umana, quella che nella potenza della parola “oggi” interroga le coscienze, e porta a riflettere di desiderare di essere con Lui nel paradiso, essere con il Signore in intimità di vita vera. Una promessa che è speranza certa di continuità, presenza che accompagna, con me dice Gesù, oggi con me sarai nel paradiso. La giustizia di Dio non esclude nessuno, è pronta a ospitare chi, con purezza, a lui si rivolge, riconoscendo la sua amabilità di giusto: vuol dire accogliere la Sua volontà e vivere in essa, poiché nel volere divino, tutto si trasforma, come per lo zelota che ha riconosciuto il Figlio di Dio: le tenebre si cambiano in luce, la debolezza in fortezza, la povertà in ricchezza, le passioni in virtù.
3. Gesù vedendo la madre, e accanto a lei il discepolo che egli amava, disse alla madre: «Donna, ecco tuo figlio!». Poi disse al discepolo: «Ecco tua madre!». (Gv 19, 26-27)
In Croce, il Cristo rende esplicito il suo amore di Figlio per la Madre, e affida Maria a Giovanni, il discepolo che più amava. Nel contempo. Gesù, rende esplicito il suo amore amicale e affida Giovanni alla premura di Maria. È una simbologia che, con Giovanni, abbraccia tutti i discepoli, affidati a Maria da Gesù come suoi figli, analogamente Maria è data a essi come loro madre. Gesù istituisce un fatto nuovo: la maternità spirituale di Maria erga omnes, che si basa sulla grazia. Maria, pur essendo la Madre di Dio, non considerò un tesoro geloso questo suo rapporto unico con Dio, ma spogliò se stessa di ogni pretesa. Visse nell’umiltà, nel nascondimento, obbedendo a Dio, fino ad accettare la morte del Figlio, e la morte di croce. Per questo Dio l’ha esaltata, le ha dato il nome che, dopo quello di Gesù, è al di sopra di ogni altro nome, innanzi a Lei ogni capo si deve reclinare. Potremmo domandarci: per l’uomo di oggi, cosa può significare prendere Maria nella propria casa, come fece Giovanni? Accogliere Maria è accogliere la parola di Dio in azione, il suo essere maestra amabile, ineguagliabile, capace di farci camminare nell’amore, penetrando vie di Dio. È accogliere l’armonioso Suo silenzio, che ha frastornato il mondo riempiendolo dell’amore del Figlio, testimoniato dal coraggio di Lei, donna forte della fortezza della fede. Accogliere la Madre di Gesù è rendersi figli di un sentimento salvifico, cooperatori di un bene che, con l’azione dello Spirito Santo, salva una umanità distratta, povera di valori assiologici e di fede.
4. Verso le tre, Gesù gridò a gran voce: «Elì, Elì, lemà sabactàni?», che significa: «Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?». (Mt 27, 46)
Un grido struggente squarcia i cieli, un grido d’aiuto si leva dalla croce. Ma Dio tace, e questo silenzio lacera l’animo doloroso che interpella, Dio sembra così distante, così assente. Quell’urlo è una preghiera che sollecita un rapporto, cerca la relazione affinché possa prodigare conforto e salvezza. Gesù vive il dramma della solitudine, della morte, ma usa nel grido al cielo, l’espressione ‘mio’, sommo atto di fiducia, fede che fa guardare all’oltre, ispira al senso di protezione, affidamento di vita. Egli che vive la sua passione abbandonato da quasi tutti, tradito, rinnegato dai discepoli, attorniato da chi lo insulta, è sotto il peso schiacciante di una missione che deve passare attraverso umiliazione e prostrazione. Nel suo geloso ‘mio’, Gesù fende il cielo, proclama con fede, una certezza che travalica ogni dubbio, ogni buio, ogni desolazione. E il suo lamento si trasforma, si trasfigura, lasciando il posto all’esaltazione della salvezza. È la vittoria della fede, che tramuta la morte in dono della vita, converte l’abisso del dolore in fonte di speranza. Anche nell’apparente assenza, nel fragoroso silenzio di Dio, siamo chiamati a discernere la realtà, riconoscendo la Via dell’esaltazione nell’umiliazione, la pienezza della vita che si manifesta anche nella croce. Trattenere nel cuore, nella mente, il pensiero di questo grido struggente, riuscire a percepirlo in tutta la sua potenza, ogni volta che se ne sente il bisogno, significa richiamare amore a sé, corrispondenza intensa al bene che mai delude, poiché mai abbandona.
5. Ho sete. (Gv 19, 28)
È naturale inclinazione fare spazio ai bisogni virtuosi più profondi, e Gesù ce lo ricorda che Non di solo pane vivrà l’uomo (Mt 4,4). La parola di Dio sazia l’arsura dei desideri, apre a idealità attraenti, coltiva l’anelito a poterle vivere, rendendoci capaci di fare spazio all’aspirazione profonda che dal cuore nasce, e non ci lascia ripiegati su noi stessi, piuttosto ci apre a orizzonti nuovi che trasformano la vita, le danno un senso. La sorgente da cui scaturisce quel ‘ho sete’, anche nella nostra contemporaneità, si estende alla ricerca di significati di senso, capaci di dissetarci, di contro permarrebbe arsura priva di sazio, sentiremmo di rimanere naturalmente proiettati a cercare, incessantemente, quelle verità che appagano, quietando l’anima. Il corpo di Gesù è tormentato dal bisogno di bere, esclama ‘ho sete’, espressione che interpella: Egli non chiede acqua, cerca la fedeltà, matrice che sazia e che dona vita. Di contro, nella materialità, sicumera dell’agire, che non comprende, ed è propria del limite dell’uomo fermo al meramente materiale, viene dato a Gesù, con una spugna imbevuta e posta su una canna, dell’aceto. Di fatto, nell’oltre cui Egli sollecita, l’espressione di Gesù è venuta ad assumere un significato che va al di là della sete corporea: è sete che ambisce salvezza, una sete di anime, Egli rimane fedele al suo compito, e questo ancora oggi a noi chiede: solo la sua vita ‘donata’ gli toglie l’intima arsura. Innamora l’Amato che ama fino alla fine, per questo siamo chiamati a coltivare idealità alte e, come lui, ad avere sete. Le parole di Gesù diventano un programma di vita umanizzante in quanti riescono a farle risuonare, pulsare nel proprio cuore. Conducono a scoprire il personale bisogno di sete, a dargli un nome, a capirne intensità, a coglierne i confini. E mi porta a chiedere: quale sete urge dentro di me? Quali sentimenti muove dentro di me, come li indirizza, verso quali sbocchi mi porta. Quando poi la sete è provocata da un bisogno non riconosciuto, non rivelato, mi lascia un’arsura permanente che mi induce a cercare, e ancora cercare la sorgente cui attingere per avere appagamento. La fedeltà è esigente, intransigente, severa quando autentica, non si lascia corrompere, piuttosto si disvela in quell’umanità che si ritrova a cercare l’Amato che ama.
6. Tutto è compiuto! (Gv 19, 30)
La creazione più bella di Dio, l’umanità, ha dimostrato di non essergli fedele, ha dato prova, ancora una volta, di quanto male sia capace, di quanto odio nutra e semini, di quanta perversione ha accumulato nel cuore quando ha urlato: Crocifiggilo! E piange la Madre di Dio, piange ai piedi della croce, versa lacrime non solo per la morte del figlio, ma soprattutto nel vedere il disorientamento della popolazione, lo smarrimento dei suoi figli di fronte a quelle ultime tremende parole di Gesù: tutto è compiuto! Come se l’umanità solo in quel momento avesse iniziato a percepire, ad avvedersi, che ciò che si era compiuto fosse davvero atroce, come solo la morte, e in croce, di un giusto può essere. Maria è mamma addolorata, ma aspetta nella fede i frutti di questo compimento. Dio annienta il male più grande, è vinto il potere della morte, il nemico più violento, il vuoto più drammatico, la disperazione più aggressiva. La vita si riveste di speranza. Certo, Dio propone un amore esigente, percepiamo quanto sia faticoso capirlo, accoglierlo, ma occorre continuare a cercare Gesù, come hanno cercato le donne la mattina di Pasqua, cercarlo, senza timori di fronte alla vita a volte dura, ma cerchiamolo avvedendoci della grazia, poiché tutto è compiuto: la potenza della Sua presenza risorta è in mezzo a noi. Occorre far riscoprire al mondo la dignità e la grazia dell’essere Popolo di Dio, vivificato e custodito da Lui. È consolante, rassicurante sapere che il grido di Gesù sulla croce ‘tutto è compiuto’ attendeva la luce di questa notte per avere un senso, compimento di grazia e di salvezza.
7. Padre, nelle tue mani consegno il mio spirito. (Lc 23, 46)
L’ultimo respiro è dato. Si quieta lo strazio. Cristo, nell’atroce morte dolorosa della croce, consegna il suo spirito al Padre, e si separa dal corpo. L’Amato che ama consegna se stesso, sugellando in maniera compiuta, il Suo affidamento. Come uomo, certo, muore, e come uomo volontariamente si è donato, incarnando generosità propria solo di chi allontana la sofferenza da un’altra persona, vivendola su di se, una morte vinta dall’amore per aliis. Questo ‘consegnarsi’ deve essere la nostra inquietudine, l’inquietudine cui la contemporaneità deve rivolgere le sue attenzioni, tensione di quella speranza che rigetta violenza, confusione, disordine morale, che vuole poter vivere nella dignità di figli di Dio. Non può lasciarci indifferenti questo ultimo respiro poiché, edificando la nostra vita ci consente di dire, con l’apostolo, Cristo vive in me. (Gal 2, 20).
Ecco dunque lo scandalo: lo spirito si fa vita, la luce dello spirito guarisce da infedeltà, e si disvela nell’armonia, esigenza interna dello spirito, la virtù che più di ogni altra ha il sigillo dello spirito. Lo scandalo della croce ha sgretolato ogni certezza, e segnato il momento supremo di verità della fede, quel kairos che contempla e comprende l’amore salvifico, la fedeltà all’Amato che salva.
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