L’uomo può costruire la società e «organizzare la terra senza Dio, ma senza Dio egli non può alla fine che organizzarla contro l’uomo. L’umanesimo esclusivo è un umanesimo inumano» (Populorum progressio, 42). L’uomo è Persona, non soltanto homo faber o oeconomicus, perciò, il vero sviluppo consta nel passaggio, per ciascuno e per tutti, da condizioni meno umane a condizioni più umane. Certamente, per raggiungere la propria pienezza la persona necessita di “avere” cose, ma queste non bastano, occorre anche la crescita interiore: culturale, morale, spirituale.
«L’“avere” oggetti e beni non perfeziona di per sé il soggetto umano, se non contribuisce alla maturazione e all'arricchimento del suo “essere”, cioè alla realizzazione della vocazione umana in quanto tale» (Sollicitudo rei socialis, 28). L’essenziale è, pertanto, la realizzazione piena della persona, ossia “essere” di più, crescere in umanità senza lasciar fuori nessuna virtualità umana, e farlo in modo armonico. Tuttavia, non è questa la mentalità più diffusa: le dottrine utilitaristiche misurano il progresso esclusivamente in termini immanenti e terreni.
Le palesi contraddizioni che si osservano nel
nostro mondo, mettono in rilievo «l’intrinseca contraddizione di uno
sviluppo limitato soltanto al lato economico. Esso subordina facilmente la
persona umana e le sue necessità più profonde alle esigenze della pianificazione
economica o del profitto esclusivo [...]. Quando gli individui e le comunità
non vedono rispettate rigorosamente le esigenze morali, culturali e spirituali,
fondate sulla dignità della persona e sull'identità propria di ciascuna
comunità, a cominciare dalla famiglia, tutto il resto, disponibilità di beni,
abbondanza di risorse tecniche applicate alla vita quotidiana, un certo livello
di benessere materiale, risulterà insoddisfacente e, alla lunga, disprezzabile»
(Srs, 33).
Come ricordava Giovanni Paolo II durante il discorso alla CEPALC, 3
aprile1987: «Le origini morali della prosperità sono ben
note nel corso della storia. Esse si collocano in una costellazione di virtù:
laboriosità, competenza, ordine, onestà, iniziativa, sobrietà, risparmio, spirito
di servizio, fedeltà alle promesse, audacia: insomma amore per il lavoro ben
fatto. Nessun sistema o struttura sociale può risolvere, come per magia, il
problema della povertà senza queste virtù; alla lunga, sia i programmi che il
funzionamento delle istituzioni riflettono queste abitudini degli esseri umani,
che si acquistano essenzialmente nel processo educativo dando vita ad una
autentica cultura del lavoro». Ciò
che si richiede per vivere armonicamente lo sviluppo trascendente e quello
terreno dell’uomo è che ogni persona realizzi le proprie attività, incluse
quelle socioeconomiche, in modo che raggiungano la loro pienezza di significato
umano, d’accordo con il destino ultimo trascendente dell’uomo; e che le altre
persone e la società abbiano la consapevolezza del valore e delle esigenze
proprie di ciascun essere umano, e agiscano di conseguenza.
Punto fermo di tali esigenze umane è la necessità di
compartecipare nella produzione e nella fruizione dei beni umani. Ciò si
realizza mediante il principio e la virtù della solidarietà.
«Il mondo è malato», diceva Paolo VI (Populorum progressio, 66), e sembra che
da allora si sia aggravata la malattia: basta pensare ai campi profughi, agli
esiliati, alle discriminazioni razziali e religiose, alle aree dove è
istituzionalizzato lo sfruttamento e la corruzione, ai posti di lavoro dove si
ha l’impressione di essere usati come mezzi e ai luoghi dove l’umiliazione è
divenuta sistema di vita, alle zone di fame, di siccità e di malattie endemiche:
«Il panorama del mondo odierno, compreso quello economico, anziché rivelare
preoccupazione per un vero sviluppo
che conduca tutti verso una vita “più umana”, come auspicava l’enciclica Populorum Progressio, sembra destinato
ad avviarci più rapidamente verso la
morte» (Srs, 24). Ci si trova così di fronte a un tremendo paradosso: gli
uomini sono consapevoli dei criteri del vero sviluppo, vogliono realizzare il
bene ed evitare il male, posseggono, in quantità sufficiente, i mezzi tecnici
per farlo; nondimeno il mondo continua ad essere malato, forse più di prima. Il
paradosso richiede così una spiegazione che raggiunga la sorgente ultima dei
mali nel mondo; richiede un’analisi che si occupi del nucleo più intimo del
comportamento umano: l’analisi etica, che arriva alla stessa origine delle
strutture ingiuste, che arriva cioè alla radice dell’agire immorale dell’uomo. Quando
il concetto giuridico di solidarietà fu applicato alla vita sociale, lo si
incorporò con una carica ideologica precisa: Comte ne fece il fondamento della
sua sociologia positiva, e nelle attività economiche si prese come insegna di
rivendicazioni sociali, per lo più violente. Tuttavia, la nozione di
solidarietà riecheggia il senso etimologico: partecipare in solidum, e significa l’insieme di legami che uniscono gli uomini
tra loro e li spingono all'aiuto reciproco.
La solidarietà va vista come fine e criterio
dell’organizzazione sociale, è uno dei principi fondamentali dell’insegnamento
sociale cristiano. Non lo è, però, come un buon desiderio moralizzante, ma come
una forte esigenza della natura umana: la persone è un essere per gli altri e
può svilupparsi soltanto in una apertura oblativa al prossimo. La solidarietà,
pertanto, cerca con ogni mezzo di promuovere l’inalienabile dignità di ogni
uomo, qualunque sia il colore della sua pelle, il livello sociale cui
appartiene, le idee politiche o religiose che professi, e di contribuire a che
si sviluppi come persona; la solidarietà mira a che tutti gli uomini possano
agire, nella società e nel lavoro, con la coscienza e la responsabilità proprie
delle persone; ed è, pertanto, il dinamismo che vivifica e rende efficaci i
meccanismi e le strutture socioeconomiche, non permettendo che si convertano in
meccanismi perversi. Così, la solidarietà non deve confondersi con «un
sentimento di vaga compassione o di superficiale intenerimento per i mali di
tante persone, vicine o lontane. Al contrario, è la determinazione ferma e perseverante di impegnarsi per il bene comune: ossia per il bene di tutti
e di ciascuno» (Srs 38). Ora, «L’esercizio della solidarietà all'interno di ogni società è valido,
quando i suoi componenti si riconoscono tra di loro come persone» (Srs 39). Ciò
implica superare le tendenze all'anonimato nei rapporti umani; convertire la
“solitudine” in “solidarietà”, la “diffidenza” in “collaborazione”; promuovere
la comprensione, la mutua fiducia, l’aiuto fraterno, l’amicizia, la
disposizione a “perdersi” a favore dell’altro.
[Foto: Laocoonte e i suoi figli]
Nessun commento:
Posta un commento