mercoledì 19 novembre 2025

NO al Referendum: non si strumentalizza la Giustizia

Circa la riforma della giustizia e il finto garantismo, voterò con convinzione NO al Referendum. Parliamo di una riforma meramente strumentale, che non risolve il bisogno di efficienza, di celerità, non risolve i reali problemi della giustizia in Italia, non li tocca. Piuttosto, appare lampante che si parli di miopia politica, incapace di avvedersi che è la visione della Giustizia a dover essere riportata al centro dell’attenzione, al cuore della sua essenza, il che non induce a perorare riforme atte a separare e, soprattutto, a confondere.

Tommaso d’Aquino insegna che compito primo della Giustizia è ordinare l’uomo nei rapporti verso gli altri, e definisce la virtù della giustizia: “Abito per cui l’uomo è inclinato a dare a ciascuno il suo”. (S. Th., II-II, q. 58, a.1.). Più volte ho sollecitato alla comprensione reale del cosa significa «dare a ciascuno il suo», qual è la proporzione?; quando si cade nell’illegalità?! Repetita iuvant: dare a ciascuno il suo significa, innanzitutto, non danneggiare gli altri. È un criterio semplice, di reciprocità, principio etico e giuridico fondamentale, che si basa sull’idea che ogni individuo ha il diritto di godere dei propri diritti, senza però interferire con quelli degli altri. Tale concetto viene spesso utilizzato nella filosofia del diritto e nella teoria della giustizia, in quanto rappresenta uno dei principi fondamentali su cui si basano le leggi e le norme sociali. Va da sé che ogni persona ha il diritto di godere dei propri diritti, a patto che questi diritti non vengano violati, compromessi, impediti. La giustizia è, dunque, anzitutto virtus ad alterum, la sua materia concerne le relazioni. Ma per vivere correttamente le relazioni con gli altri è necessario essere giusti, in altre parole, essere persone rette, oneste intellettualmente, che sanno dare il corretto e legittimo spazio alle differenti facoltà con elementi di ragionevolezza. Diversamente si cade nell’illegalità. Va da sé che compiere ingiustizia – e separare un ‘corpo’ mi sembra ingiustizia – è l’azione più imbarazzante e contraria alla retta ragione. È forse questo il senso del referendum?! Senza verità, ci ricorda Tommaso d’Aquino, anche il diritto diventa privo di giustizia e di moralità; anche la verità è, infatti, legge di giustizia. Ne consegue che: rifiutare di aderire alla manifesta ingiustizia, dire di NO, costituisce fulcro di liberazione, di emancipazione sociale da affrancamenti votati a separare carriere che non aiuta l’esercizio del dovere di giustizia. Ecco che, quando l’ingiustizia cerca di mascherarsi di norma, la resistenza diventa un dovere morale.

La vita pubblica porta con sé alti incarichi, rappresentanze, dignità, deve pertanto rispondere a una realtà di giustizia per cooperare al Bene Comune. Per dare forma a una società buona, bisogna costruire buoni pensieri che sapranno generare buone passioni, anche se la società odierna tiene in poco conto i sentimenti, sopraffatti da apparenze, false relazioni, finte fratellanze, forzate quanto calcolate empatie, sentimenti sottomessi alla freddezza dell’indifferenza e del tornaconto familista. Occorre, di contro, curare l’esistenza, trovarne giusto significato, arricchirla di valori, guardare le cose con occhi diversi, da prospettive diverse, occorre avere la consapevole certezza che cultura è sensibilità, capace di penetrare e liberare umanità alla meraviglia, formarla ad una giustizia sociale savia.

Il Referendum strumentale sulla Giustizia propone, a spese dei contribuenti, una riforma che ambisce superare un problema che non esiste: dopo la riforma Cartabia, solo l’1% dei magistrati decide il passaggio da procuratore a giudice, per cui si vuole far scegliere su una questione che non esiste nella realtà. Inoltre, l’art. 104 della Costituzione italiana dice che la Magistratura costituisce un ordine autonomo e indipendente da ogni altro potere, ma con il referendum rischia di diventare poco credibile. Questo perché la proponente visione miope dell’attuale governo, punta a ‘eliminare’ la terzietà della magistratura, limitare la loro “invadenza” con il precipuo intento di sottrarre la politica alle loro attenzioni. Ma la Magistratura non può essere sottomessa alla politica, ancor più se si parla di politica mediocre, ha bisogno solo di essere indipendente; subordinare la magistratura inquirente all’esecutivo è inaccettabile in ogni sistema civile, democratico. Il rispetto dei ruoli, il rispetto dei limiti di competenza deve poter essere azione quotidiana, di contro, ciò a cui assistiamo in questo paradossale paese Italia, per non dire nei suoi Comuni che, per larga parte, fungono da sentinelle di un sistema politico insipiente, è tutt’altro che reale, è tutt’altro che di dedizione al bene comune, è tutt’altro che istruito al costrutto sociale. Una classe politica cui consiglierei di studiare, se non altro per rispetto ai Politici che l’Italia l’hanno liberata dall’ignoranza della prepotenza e che della dignità rappresentativa hanno saputo essere faro: tra questi Merlin, Anselmi, Iotti, De Gasperi, Pertini, Moro, Berlinguer, La Pira. Parliamo di stili e contenuti assai lontani dall’attuale similpolitica.

La posta in gioco è, dunque, la libertà stessa della Giustizia, poiché sembra proprio che i proponenti vogliano non riformare la giustizia, piuttosto avere un pubblico ministero che non disturbi, peggio, che obbedisca. Appare chiaro che si confonde l’autonomia con un privilegio, l’indipendenza con qualcosa di incomodo: questa visione richiama non al senso dell’esercizio di una politica sana, ma all’esercizio di un pericoloso potere autoreferenziale, distante dal Bene Comune. Non vedo democrazia quando il fare politico mette le mani sulla giustizia, non interagisce a chiarimento con gli organi preposti, e lo fa mascherando l’ambizione di potere con l’ostentato senso di giustizia a salvaguardia di democrazia. La filosofia identifica questo agire con il termine filodossia che se per Kant specchia il dilettantismo filosofico, la corruzione della filosofia allorquando non perviene a conclusioni scientificamente valide. Per analogia si può parlare di filodossia in politica allorquando si riscontra dilettantismo, corruzione politica, che mancano di realizzare il fine di migliorare lo stato stesso del bene comune.

Un esempio plastico, seppure non legato alla separazione delle carriere, ma a una certa insofferenza del sistema giuridico si è manifestato in questi stessi tempi, quando la Corte dei Conti ha dato parere negativo, nel merito delle sue specifiche funzioni, alla realizzazione del ponte sullo stretto. La reazione vittimista dei membri del Governo non si è fatta attendere verso l’organo istituzionale. Voglio l’erba voglio nei sistemi democratici, civili, non può sussistere, e le retropatie nostalgiche nell’atteggiamento poco edificante e rispettoso del popolo, è bene che rimangano ai margini della società, come la stupidità in genere. Il Governo, infatti, insiste a voler sprecare 13,5 miliardi di euro per il ponte, al fine di unire ciò che la natura non ha congiunto – credo al disegno divino di valorizzare bellezza, natura, ambiente –, per una risultanza improbabile, poiché dai rispettivi territori Calabria e Sicilia, i cittadini dovranno capire come raggiungere il ponte, vista la gravità dei collegamenti intra locali. Non sono contraria alle grandi fattibili infrastrutture, ma al non senso sempre. Se necessarie, se utili, se aiutano al bene comune, soprattutto se, primariamente, sono fatti salvi e efficienti i servizi territoriali prioritari, nulla osta alle grandi opere. Ma una domanda occorre porsela: cosa unisce, cosa collega il ponte sullo stretto? Se all’interno della mia Regione Calabria non ho strade decenti per ‘muovermi’, per spostarmi senza farmi il segno della croce, a cosa serve unirsi, a cosa collegarsi, e perché? Qual è il criterio di tale scelta di imbarazzante nulla politico? Il bene comune qui qual è?! Si provveda per la Calabria e la Sicilia ad assicurare i servizi più elementari per poi pensare alle grandi opere, i nostri territori continuano ad essere sempre più disabitati – nonostante, a proposito di non senso, si provveda a sperperare fondi pnrr per edificare asili nido –. Credo che la Politica ‘alta’ debba iniziare a porsi domande SERIE, possibilmente senza cori di indegnità che inneggiano all’indecenza.

È ora che la politica torni ad occuparsi realmente della gente poiché, asseriva La Pira: “Il pane, e quindi il lavoro, è sacro; la casa è sacra, non si tocca impunemente né l’uno né l’altro, questo non è marxismo è Vangelo”. Il bene comune e l’armonia sociale sono i due fari che devono guidare l’azione politica e sociale, soprattutto dei cattolici in politica, di quelli che non usano il cattolicesimo come patacca per le occasioni di propaganda clientelare, ma occorre Essere cattolici nell’agire politico. Quei due fari – bene comune e l’armonia sociale – costituirono il timone costruttivo che influenzò la scrittura della nostra Costituzione, oggi, in alcuni ambiti, tanto ingombrante per alcuni. Bisogna riaccendere la luce verso quel faro di fondatezza politica, poiché, ed è proprio vero: il tempo è padre del Giusto e della Verità.



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