La dimensione anagogica, il tendere verso l’alto, che guida ogni essere umano alla ricezione delle ispirazioni dello Spirito, sollecita, in termini generali, ad ampliare gli orizzonti verso la comprensione delle virtù. Il come si deve operare per bene-dire e per bene-operare nelle nostre vite e portarle a compimento, nel momento giusto, non è questione moralmente neutrale, ma espressione propria della virtù e dell’eccellenza etica e morale. Non sapere come realizzare il bene o, pur sapendo, non realizzarlo, non è attribuibile a un errore intellettuale, ma alla mancanza di virtù.
Nell’ambito della vita attiva la prudenza è la virtù principe: “Prudentia est auriga virtutum” (II Sent., d. 41, q. 1, a. 1, ob. 3). La prudenza è la virtù che dispone la ragione pratica a discernere, in ogni circostanza, il nostro vero bene e a scegliere i mezzi adeguati per compierlo (C.C.C., n. 1806).
È, quindi, perfezione dell’intelletto pratico, abito che sostiene stabilmente la rettitudine della ragione pratica nella sua funzione di progettare e regolare il comportamento morale concreto. Tuttavia, è una virtù morale, e non solo intellettuale: le virtù intellettuali comportano una capacità di agire bene, ma non implicano, tanto meno garantiscono, il buon uso di tale capacità. Le virtù morali invece comprendono, nella propria essenza, la volontà di agire bene. Alla prudenza non spetta disporre se conviene agire con giustizia o meno, ma disporre efficacemente le azioni necessarie per realizzare la giustizia. La prudenza presuppone le altre virtù morali, senza volere essere giusti, coraggiosi, temperanti, non può esitere la prudenza (S. Th., I-II, q. 58, a. 5). Prima la persona deve volere seguire Gesù, e quindi agire con giustizia, fortezza, temperanza, umiltà, e dopo la prudenza individua la linea di comportamento che risolve, con caritas, condizioni pro bonum.
La prudenza svolge, dunque, una funzione specifica: ‘genitrix virtutum’, guida e madre delle virtù morali, perché la prudenza è necessaria affinché le altre virtù morali arrivino al loro atto principale, che è il comportamento retto. Non basta volere essere giusto o temperante, anche se questo è già tanto, occorre individuare la linea di condotta che realizza la giustizia o la temperanza. Senza quest’azione propria della prudenza, le altre virtù non saprebbero come esprimersi e, non riuscendo ad esprimersi, non arriverebbero a consolidarsi nella persona.
Fine della ragione pratica non è la considerazione del bene, né la proposizione di grandi ideali, ma la loro effettiva realizzazione, determinata immediatamente dalla scelta, presupponendo la buona deliberazione e il retto giudizio. Chi sa cosa dovrebbe fare, allontanarsi da un’occasione di peccato, restituire, ripristinare il giusto a fronte di un danno operato, e lascia che si consumi tempo senza operare, non è prudente: non riesce a decidersi a passare all’azione, e così gli viene a mancare l’atto proprio della prudenza: agere sequitur esse!
“La prudenza, scrive s. Tommaso, è la virtù più necessaria per la vita umana. Infatti, il ben vivere consiste nel ben operare. Ma perché uno operi bene non si deve considerare solo quello che compie, ma anche in che modo lo compie e così si richiede che agisca non per impulso o per passione, ma secondo una scelta o decisione retta”. E questo “richiede il diretto intervento di un abito della ragione: poiché deliberazione e scelta, aventi per oggetto i mezzi, appartengono alla ragione” (S. Th., I-II, q. 57, a. 5).
Globalmente considerata, la prudenza ha il compito di rendere buoni ed eccelenti tutti gli atti della ragione che riguardano le azioni da compiere, vale a dire, la deliberazione, il giudizio, la scelta. Tommaso d’Aquino considera che la deliberazione e il giudizio sono atti di virtù collegate alla prudenza, e che la scelta è l’atto specifico della prudenza. La ragione è che la prudenza è la principale virtù riguardante la direzione dell’agire, e il suo oggetto deve essere, pertanto, l’atto principale della ragione rispetto alle azioni da compiere, che è la scelta. Questo atto consiste “nell’applicare le cose deliberate e giudicate all’operazione. E poiché codesto atto è più prossimo al fine della ragione pratica, esso è l’atto principale di codesta ragione, e quindi della prudenza” (S. Th., II-II, q. 47, a. 8, c).
Altresì, la prudenza del cristiano non solo presuppone il possesso delle virtù morali, presuppone anzitutto la carità (S. Th., I-II, q. 65, a. 2). Solo alla luce della fede e sotto l’impulso della carità la persona può vivere in tutte le circostanze da cristiano coerente e, per individuare e portare a compimento le azioni degne di un cristiano, la persona deve volere vivere cristianamente, cioè cercare l’identificazione con Gesù attraverso le proprie azioni e le proprie attività. E, con S. Agostino: “Non uscire fuori di te, ritorna in te stesso: nell'interiorità dell'uomo abita la verità, e se troverai la tua natura mutabile, trascendi anche te stesso” (De vera religione, XXXIX).
[Foto: Simon Vouet - Allegory of Prudence]
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