Fu un credente aperto alla Parola che Dio ha rivolto a Israele, e ancora oggi insegna quanto l’ascolto, l’incontro, possa generare radicale metamorfosi. Da persecutore egli si lasciò avvolgere dalla fermezza dell’amore capace di rinnovare animi, aprendo alla conoscenza, cercando pace. Dopotutto è Gesù stesso che ha indicato la strada: io sono la Via, la Verità, la Vita. E la Verità vi farà liberi!
Stiamo parlando di Saulo di Tarso, apostolo delle genti, prodigioso esempio dell’amore per la Parola di Dio.
Chi era Saulo? Lui stesso si presenta: “Circonciso all’età di otto giorni, della stirpe d’Israele, della tribù di Beniamino, ebreo figlio di ebrei; quanto alla Legge, fariseo; quanto allo zelo, persecutore della Chiesa; quanto alla giustizia che deriva dall'osservanza della Legge, irreprensibile” (Flp, 3,5-6). Ma il suo nome era Saulo oppure Paolo? Come molti ebrei del suo tempo, ebbe due nomi. Si trasferì a Gerusalemme sin da ragazzo per studiare la Legge da Gamaliele, At 22, 3: “Io sono un Giudeo, nato a Tarso in Cilìcia, ma educato in questa città, formato alla scuola di Gamaliele nell’osservanza scrupolosa della Legge dei padri, pieno di zelo per Dio, come oggi siete tutti voi”.
Saulo/Paolo fu folgorato dalla visione di Gesù che gli apparve sulla via per Damasco. L’evento è descritto negli Atti degli Apostoli: “Saulo, Saulo, perché mi perseguiti? Rispose: Chi sei? Ed egli: Io sono Gesù, che tu perseguiti! Ma tu àlzati ed entra nella città e ti sarà detto ciò che devi fare. Saulo allora si alzò da terra ma, aperti gli occhi, non vedeva nulla. Così, guidandolo per mano, lo condussero a Damasco. Per tre giorni rimase cieco e non prese né cibo né bevanda” (9,1-9). Dopo tre giorni di cecità, Paolo riebbe la vista grazie ad Anania che gli impose le mani e lo battezzò per la remissione dei peccati. Tornato a Tarso, sua città natale, si trovò isolato sia dagli ebrei, che lo consideravano un traditore, e sia dai suoi nuovi fratelli spirituali, che ne avevano paura a causa delle sue precedenti persecuzioni. Fu tratto da questo isolamento da Barnaba, un ellenista di larghe vedute. Egli condusse Paolo nella comunità di Antiochia di Siria. Rimasero insieme un anno intero in quella Chiesa e istruirono molta gente. Ad Antiòchia per la prima volta i discepoli furono chiamati cristiani.
Paolo a cosa mai doveva convertirsi? Egli aveva fede nel Dio unico di Israele, lo stesso Dio in cui aveva fede Gesù. La differenza tra lui e i giudei era che i giudei non accettavano Gesù quale Messia. Paolo non ha mai rinunciato alla sua eredità ebraica, la sua fede ebraica, o le sue credenziali come un fariseo. Egli rimase giudeo fino alla morte. Quando ormai era già divenuto discepolo di Gesù, di fronte al Sinedrio, massima corte giudaica, dichiarò: “Fratelli, io sono fariseo, figlio di farisei; sono chiamato in giudizio a motivo della speranza nella risurrezione dei morti”.(At 23, 6). Tuttavia, occorre capire bene quest’ultimo passo. Paolo era stato accusato di fronte alla corte di giustizia ebraica, e il motivo lo spiega lui stesso: della speranza nella risurrezione dei morti. La sua rivendicazione d’essere un fariseo era quindi relativa a una dottrina della fede ebraica, la resurrezione. Il corpo dottrinale farisaico non fu mai rinnegato da Paolo. I farisei avevano tuttavia un loro modo di vivere la fede: il legalismo.
Il Dio di Saulo di Tarso rimase il Dio di Israele e la sua fede rimase quella basata sulla Scrittura. Paolo viene chiamato in una visione ad essere apostolo del Messia ebreo del Dio di Israele. Si tratta quindi di una chiamata, non di una conversione. A che fede avrebbe mai potuto convertirsi, se il Messia di Dio era un ebreo praticante e tale rimase per tutta la sua vita? Il “cristianesimo” come religione organizzata sorse più tardi della morte di Paolo. La cosiddetta “conversione sulla via di Damasco” è diventata un’espressione famosa, ma si basa su un errore religioso. Quella di Paolo non è una conversione, cioè il passaggio da una fede a un’altra; si tratta piuttosto di vocazione, la tensione a vivere una modalità della stessa fede. Di fatto, nelle sue Lettere, Paolo non parla mai di conversione. Descrive la propria esperienza sulla via di Damasco come una chiamata ad essere apostolo delle genti.
Ergo: la testimonianza dello stesso S. Paolo ci chiarisce l’inappropriata espressione di conversione che può, tra l’altro, ingenerare l’errata convinzione che Paolo si sia convertito in quanto ha cessato di essere ebreo per diventare cristiano. Non è così; in seguito a una chiamata, che ricorda quella dei profeti, Paolo è diventato non già un cristiano, bensì un ebreo credente in Gesù Cristo. Egli ha fede nel Dio unico di Israele. Nella tradizione biblica, Dio ha scelto il popolo di Israele in vista della salvezza di tutte le genti. Si è rivelato, in particolare, mediante la Torah e la missione dei profeti. Fino all’annuncio di un Messia, che sarà Gesù di Nazaret, il figlio di Dio, inviato per la salvezza di Israele e di tutti i popoli. Ma la sua gente, che pure lo attendeva, non lo riconosce, lo rifiuta, lo manda a morte. Solo una parte di giudei credettero in lui. Questa loro fede, ovviamente, non può dirsi una “conversione”. Infatti, un ebreo che riconosce il Messia, rimane rivolto al medesimo Dio di prima; la sua nuova fede è la pienezza del proprio itinerario precedente, non un cambiamento di religione. È la fede dell’Antico Testamento giunta al suo compimento nell’atto di accogliere il Messia promesso.
Auspicio sentito è che si incontrino sulle vie di Damasco le ragioni dei Popoli, di sterminatori il mondo ha sperimentato la sostanza immonda. L’uomo di guerra faccia un passo indietro, di coraggio si ricoprano, invece, quanti credono nella vita, nel bene della fine dei conflitti. Si segua l'esempio di Saulo che da persecutore efferato divenne sostenitore delle ragioni della Parola di vita dell’unico Dio dei Cristiani, degli Ebrei, dei Musulmani.
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