È possibile far convivere nella stessa
anima una ardente passione e una distaccata oculatezza? La politica si fa con la
testa, tuttavia la dedizione a essa, se non deve essere un puerile intrattenimento
di interesse personale, piuttosto un agire umanamente autentico, può scaturire e
essere alimentata unicamente dalla passione, che nulla ha a che vedere con l’autocelebrazione.
L’appassionato è in sé cultore di gratuità. Nondimeno, il fermo controllo
dell’anima, che caratterizza l’uomo politico ‘ap-passionato’, e lo distingue
dal politico velleitario che si dimena in modo vano, è possibile solo attraverso
l’abitudine a una distaccata oculatezza. Questo perché, la dedizione politica implica
il dominio quotidiano di un nemico assai insidioso: la boria.
L’emergere del dato virtuoso, nell'uomo politico, implica il farlo fermare a pensare, capire, conoscere. Platone, nella Repubblica,
sperimenta di produrre una legittimazione del potere, fondata sull'autorità della conoscenza, e sulla base di questa legittimazione presenta il suo
progetto politico. Tesi centrale è la subordinazione della politica alla
filosofia. Ora, se la filosofia e la politica sono sfere radicalmente
differenti e, peggio, se la filosofia non ha competenza sulla politica, se ne
deduce che le istituzioni politiche vengano pensate come espressione di poteri
e di concetti non formalizzabili, né legittimabili teoreticamente. Questi
poteri e questi concetti possono anche essere democratici, tuttavia, se sono
indipendenti dalla teoria, lo sono solo per un felice accidente della storia. Questa è la critica che Socrate fa, nel Menone, ai politici ateniesi, ne riconosce sì l'eccellenza, ma la ritiene dovuta a un 'caso fortuito', non alla loro scienza.
Una filosofia politica
che respinge la possibilità dell’autorità della conoscenza come proprio guado, proprio
orizzonte ideale, si espone all'azzardo di ridursi a propaganda e
intrattenimento enfatico, di cui, assai vivamente, ne siamo stremati.
L’aspirazione al potere è lo strumento con
cui l’uomo politico inevitabilmente si trova a scontrarsi. Questa aspirazione
al potere si trasforma in un oggetto di autoesaltazione puramente personale,
invece di porsi esclusivamente al servizio del bene comune, vera causa
dell’operare politico. La boria, il bisogno di porre se stessi in primo piano
nel modo più visibile possibile, induce l’uomo politico nella fortissima
tentazione di prendere con leggerezza la responsabilità del suo agire e di
preoccuparsi solamente dell’‘effetto’ che suscita. L’assenza della causa, del
fine del suo operare, determinato dal non pensare, dal non capire, dalla non
conoscenza, lo porta ad aspirare alla luccicante apparenza del potere, invece
che al potere effettivo. Il mero politico del ‘potere’, tanto in voga nei tempi
moderni, può sì esercitare una forte influenza, ma in effetti opera nella vacuità
e nell'assurda irrazionalità. Ciò è il prodotto di una indifferenza oltremodo misera
e insignificante di fronte al senso dell’agire umano, che non ha alcun tipo di
rapporto con la coscienza di ogni agire, e in particolare dell’agire politico.
Il fatto di servire una causa, quale debba
essere la causa per i cui fini l'uomo politico aspira al potere e fa uso del
potere, è una questione di fede e di passione, che il fare politico stesso
suscita, con pensiero, con conoscenza, con cultura che è sensibilità, e la
responsabilità politica non può essere un sussulto emotivo, piuttosto un dato
razionale, la cui direzione non indirizza mai lo sguardo verso il basso della
boria, piuttosto guida nelle alte profondità dell’animo umano, dei suoi reali
bisogni, ed è innesto dello sguardo verso l’alterità, innesto di verità che
alberga, con ragionevolezza, l’agire politico.
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