La peculiarità umana consegna l'uomo alla dialettica,
al dialogo, all'infinito procedere della ricerca, e il vantaggio della
comunicazione orale consiste nel fatto che essa, a differenza di quella
scritta, concede al discorso una infinita capacità di rivedere se stesso: l'uomo
ha la capacità di cogliere la verità, tuttavia ciò che rimane provvisorio è la
sua formulazione nei logoi, nei
discorsi, poiché l'uomo è calato in un divenire da cui non può svincolarsi.
Di fatto la condizione dell'uomo fa sì che non abbia accesso diretto alla
verità eterna, seppure animato da una condizione di perfettibilità.
Questo
accesso diretto sarebbe possibile se l’uomo fosse riducibile alla sua anima,
perché in tal caso potrebbe cogliere le idee immobili, di verità eterna, in
maniera immediata e intuitiva. Ciò, però, non accade, cioè la conoscenza
intellettuale non ha per l'uomo l'evidenza incontrovertibile della visione, quindi
è necessario affidare buona parte della conoscenza a un mezzo più debole, oggi
molto in voga, e non nella sua accezione luminosa, cioè la persuasione: dove
non si può far vedere una cosa in modo immediato, allora la persuasione gioca
un ruolo risolutivo. La scelta di comunicare il pensiero attraverso il dialogo consegue
all'esigenza di stabilire un rapporto interpersonale, nei limiti del possibile,
persuasivo. Il dialogo serve a suscitare un moto attivo di partecipazione, ha
lo scopo di indurre il lettore a prendere l'iniziativa nella discussione
dell'argomento e di stimolare la sua interazione. In altre parole, intento
del filosofo è di elaborare un testo che susciti domande, che induca a una
ricerca autonoma. E cosa c’è di più edificante se non la capacità di far
partorire la propria mente?
Per affrontare un’analisi di costrutto, è necessario
scegliere un metodo che arrivi a un sapere esaustivo. La scrittura è molto
esposta al rischio di fraintendimenti, perché non può difendersi da sola, né
chiarire ciò che dice in modo da assicurarsi che sia stato recepito nel giusto
significato. Del resto questa dei fraintendimenti è un'esperienza piuttosto comune:
molto spesso anche sui giornali assistiamo a polemiche nate da dichiarazioni
riportate in un articolo, e interpretate dal giornalista o da altri, in un modo
che poi è smentito dalla persona stessa che le ha rilasciate. Non è semplice
far capire correttamente la propria opinione, ossia comunicare la convinzione
che le cose stiano veramente come si crede, soprattutto quando si ha che fare con
principi filosofici astratti, che non possono essere esibiti in modo evidente.
Altro, infatti, è comunicare ciò che si pensa, altro convincere della verità di
ciò che si pensa. Si dà il caso però che solo quest'ultima condizione produce
la trasmissione di un sapere: esso, infatti, non consiste nella trasmissione di
un'informazione, ma nell'atto individuale di acquisizione che ciascuno compie
nei confronti di ciò che gli viene insegnato. L'investigare socratico consiste
nel porre le questioni in modo che l'interlocutore sia indotto a prendere parte
attiva allo sviluppo del ragionamento, e raggiunga determinate conclusioni in
seguito ad un moto di assenso spontaneo a determinate premesse. Senza questo
moto di assenso spontaneo non si ha vera comunicazione, o meglio, comunicare
non serve, perché produce una semplice acquisizione di informazioni che non fanno
parte delle convinzioni personali. Il filosofo non rinuncia al dialogo, che
costituisce la forma comunicativa più immediata e coinvolgente. In un passo
del Fedro Socrate dice: la
potenza del logos, da intendere
come discorso o ragionamento, non è nient'altro che una conduzione dell'anima.
In questo concetto si riconosce l'idea dell'educazione: anche in latino educare contiene
l'idea del ducere, cioè del guidare a uno scopo.
Necessita trovare oggi i logoi più convincenti,
in linea con interessi fondamentalmente etici, politici, educativi. Concetto
chiave di ogni confronto è la “persuasione”, da sempre parola d'ordine dei
sofisti. Ne è esempio evidente l'affermazione nel Gorgia secondo cui la parola
è un pharmakon, cioè un potente narcotico ambivalente, in grado di
produrre sia il bene sia il male. La potenza della ‘parola’ priva di conoscenza
specifica, si rivela infelicemente superiore al possesso della scienza. Bisogna
reagire contro questa esasperata esaltazione della persuasione. Ciò cui è
necessario opporsi è all'arte di persuadere in quanto tale, priva di contenuto:
Gorgia negava di insegnare alcunché, ma sosteneva di essere in grado di
persuadere qualunque ascoltatore su qualunque argomento. È impellente, invece,
la necessità di persuadere solo a partire dal possesso della verità. E' questo un dato di fatto che di solito non si vuole
riconoscere: è necessario non solo conoscere la verità, ma anche saperla
comunicare. Il semplice possesso della verità, senza la capacità di comunicarla
agli altri in modo convincente, non produce alcun effetto. La verità esiste
solo nella misura in cui è diffusa e condivisa, e implica perciò anch'essa un
fondamentale rapporto con la persuasione. Agli occhi del filosofo il difetto
dell'oratore è la superficialità, e la conseguente incapacità ad attingere il
vero. Non vi può dunque essere persuasione senza un necessario riferimento alla
verità e, per converso, la verità si manifesta solo nella persuasione. Un’armonica
fusione dei due fattori produce illuminata cultura e educazione.
Il filosofo Marcel ha lanciato questa sfida all'essere umano facendo vedere come spesso gli uomini dimenticano il loro essere, dato
che sono troppo preoccupati di dominare e di avere le cose del mondo. In realtà
è all'essere che compete la supremazia sull'avere. Uno vale per ciò che è e non per ciò che ha. La dignità attiene alla sfera dell’essere più che dell’avere e
l’uomo si rende degno conquistando la
verità, dominando la materia nella misura in cui può plasmarla, in modo da
lasciare la sua impronta nel mondo, e soprattutto compiendo le sue azioni con
libertà e orientandole al bene. Ora, la critica filosofica inclina con il dire
che Socrate arrivò fin qui, e che questo era appunto il suo metodo, niente
altro che una tattica per incrinare il falso sapere, la sapienza superficiale e
libresca degli eruditi, smascherando così l'inconsistenza dei sofisti e dei
retori, lasciando, infine, agli interlocutori il compito di arrivare alle
conclusioni. Dicendosi sapiente della propria ignoranza, egli smaschera, per
così dire, la presunzione altrui, la presunta sapienza che gonfia i petti e
rende arroganti. Tuttavia, in realtà, la confutazione socratica non è diretta
solo contro la presunzione intellettuale dei retori e dei dotti, ma anche
contro l’ignoranza vera e propria, l’ignoranza che l'uomo ha di se stesso e
delle cose che hanno realmente un valore nella vita. Pertanto non si limita
solo a far crollare certezze intellettuali infondate, ma anche valori morali, o
per meglio dire, immorali.
Scrisse
così Gianbattista Vico: “Chi pecca, cade per ignoranza, ciò lo insegna Socrate,
il qual vuol parimente che in un qualche modo abbia la scienza ad essere
riguardata come una virtù. Imperocché chi dopo diligente esame venisse a
riconoscere chiaramente la verità, non solo dalla colpa si disporrebbe, ma anzi
studierebbesi di rettamente operare. Ed aggiungeva, in guisa di esempio, il
medesimo Socrate che niuno può essere né liberale, né magnifico, se non conosce
la ragione del collocare i benefici, o dello spendere con magnificenza”.
[Foto:
Paolo Caliari, detto il Veronese, Dialettica (Aracne)]
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