martedì 4 marzo 2014

L’edificazione umana parte dall'anima, principio originario dell’essere e dell’agire


Non si può educare l’uomo, ignorando l’uomo. Quando noi domandiamo "che cosa è un uomo?", la risposta è la sua definizione, che ci dona l’essenza. Tommaso d’Aquino si rifà alla classica definizione: «È proprio dell’uomo essere animale ragionevole» (Gent., III, 39).

 «Negli enti gerarchicamente disposti, una perfezione può trovarsi in tre modi: in modo appropriato, in modo eccedente o in modo partecipato. Una perfezione si trova in modo appropriato in un soggetto quando essa è adeguata e proporzionata alla natura del soggetto. Si trova in modo eccedente, quando la perfezione è al disotto del soggetto cui viene attribuita, e conviene ad esso in grado sopra eminente. Si trova in modo partecipato, quando la perfezione suddetta non raggiunge nel soggetto tutta la sua pienezza. Quando a un dato essere si voglia imporre un nome che ne denoti l’intrinseca proprietà, questo nome non va desunto né da ciò che esso partecipa imperfettamente, né da ciò che possiede in grado eccedente, ma da ciò che è commisurato ad esso. Quindi, volendo denominare con nome proprio l’uomo, lo si dovrà chiamare “sostanza razionale” e non sostanza intellettuale, che è il nome proprio dell’angelo; mentre la semplice intelligenza conviene all'angelo come proprietà, all'uomo conviene solo per partecipazione; né si potrà chiamare sostanza sensitiva, che è il nome proprio del bruto, poiché la sensitività è qualcosa di meno di ciò che è proprio dell’uomo, ed essa, in confronto agli altri animali, conviene all'uomo in grado eccedente» (S. Th., I, q. 108, a. 5).

Tommaso, sulla scia di Aristotele, analizza le componenti essenziali di questa definizione, sostiene che la natura umana risulta da un’“unione sostanziale” dell’anima e del corpo. Un anima che in questo caso unico non soltanto è forma del corpo ma anche forma spirituale. In tal modo l’anima organizza nella materia, e sopra la materia, l’essere dell’uomo, cioè l’essenza o natura umana. «Questo nome “uomo” significa l’anima e il corpo in quanto che da essi è costituita la natura umana» (S. Th., III, q. 60, a. 3 ad 1). «Dall'anima e dal corpo, uniti, è costituita la totalità della natura umana» (S. Th., III, q. 52, a. 3 ad 2). «L’anima umana, ed è anima [forma], ed è spirito». (S. Th., I, q. 97, a. 3). «E benché l’anima e il corpo convengono nell'essere unico dell’uomo, nondimeno questo essere lo ha il corpo dall'anima; in tal modo che l’anima umana comunica al corpo il suo essere nel quale sussiste, perciò, sottratto il corpo, rimane ancora l’anima» (De Anima, a. 14, ad 11). 

L’anima, in quanto forma spirituale, sorpassando tutta la capacità della materia, immette anche nell'uomo la vita propria dello spirito: la vita intellettiva. Essa mostra capacità aperte sulla totalità dell’essere: l’intelletto per conoscere e la volontà per volere. Per queste l’uomo dilaga per intenzionalità, su ciò che non riesce ad essere per essenza e riesce a diventare «quodammodo omnia», come dice Aristotele (De Anima, III, 8 431b 21), «capax Dei cognoscendo et amando», come dice Tommaso (Psal., 8, n. 4). Questa vita intellettiva costituisce la differenza propria dell’uomo. Proprio in questa parte spirituale, apparsa con potenze slanciate sulla totalità dell’essere, Tommaso scopre nell'uomo la «imago Dei». E lo spiega così. Dio, agli enti che più amava, li ha voluti con più pienezza di essere, e quindi più simili a sé, che è l’Ipsum Esse per se subsistens. Ma non potendogli donare la pienezza dell’essere metafisico, poiché avrebbe ripetuto se stesso, ha escogitato la pensata dell’essere intenzionale, affinché questi enti potessero raggiungere per intenzionalità quella pienezza di essere che non potevano avere per essenza (De Verit., q. 2, a. 2). L’anima in quanto forma non è solo il primo principio originario dell’essere uomo, essa è anche il principio originario dell’agire da uomo. Essa dona, insieme alla «totalitas essentiae», la «totalitas virtutis», da cui consegue l’agire umano, perciò, ogni ente creato sperimenta un completamento del suo «essere» nel suo «agire». Per cui Tommaso può dire: «agere sequitur esse»; «ogni ente è in vista della sua operazione» (De Caelo, III, 7 1097a 29).

Lasciamo la natura astratta universale ed entriamo nell'ambito dell’individuo concreto, nella così detta «persona», che sarà definita come «rationalis naturae individua substantia » (S. Th., I, q. 25). Tommaso ripete in continuità che «persona», non è un nome fatto per designare una «ousia» (essenza, natura) astratta, ma l’individuo concreto di un determinato tipo di «ouosia», quello cioè di natura intellettuale, nella totalità del suo essere e del suo agire. «Come la nave si consegna al pilota perché la governi, così l’uomo è stato confidato alla sua volontà e alla sua ragione, come dice l’Ecclesiastico (15, 14): Dio in un inizio creò l’uomo e lo lasciò in mano al suo consiglio» (1-2, q. 2, a. 5). «C’è questa differenza tra l’uomo e gli altri animali, che il Signore ha dato all'uomo potere su se stesso. L’uomo può fare di se ciò che vuole, mentre gli altri animali si muovono solo per istinto naturale. Ora la libertà cui è stato destinato l’uomo naturale, non è una forza «cieca», ma è un movimento «razionale» che nasce sotto lo «splendore della verità». La volontà e la libertà presuppongono così la natura umana creata con questo desiderio di perfezione che spinge dall'interno a realizzare il bene totale dell’uomo in quanto uomo, che è appunto «il bene della ragione». Sperimentiamo così che, nella storicità, non ci troviamo come animali smarriti, ma illuminati in profondità, destinati a realizzare il programma «uomo» già seminato in noi «in atto primo». Dice s. Agostino: “Cammina attraverso l’uomo e giungerai a Dio”.

Tommaso descrive il cammino formativo dell’uomo con questa definizione molto elaborata: l’educazione è «la promozione della prole fino allo stato perfetto dell’uomo, in quanto uomo, che è lo stato di virtù». «La natura non solo intende la generazione della prole ma anche il suo sviluppo e promozione fino al perfetto stato dell’uomo, in quanto uomo, che è lo stato di virtù. Perciò secondo il Filosofo, noi riceviamo dai parenti tre cose: l’essere, il nutrimento e l’educazione» (IV Sent., d. 26, q. 1, a. 1). Nel suo realismo, Tommaso evidenzia i «punti vulnerabili» e la fragilità della natura umana da fortificare con gli abiti delle virtù cardinali: la prudenza che rinforza la ragione, la giustizia la volontà, la temperanza il concupiscibile e la fortezza l’irascibile.

La sensibilità è naturalmente ordinata verso la bellezza dove il senso, più conoscitivo, anticipa e pregusta idealmente il piacere più sublime. La sensazione gradevole del bello implica un modo di sentire più perfetto: immateriale, contemplativo, altruista. Ma a livello sensitivo questo assaggio del bene-fine offerto dal bello, rimarrà solo «ideale, intenzionale» e non arriverà a darsi «in executione». Fra tutte le virtù intellettive dovrà spiccare la sapienza,quasi sapida scientia”(I, q. 43, a. 5 ad 2), che ha “funzione di capo fra tutte le scienze” (VI Ethic., lc. 6), verso la quale dovrà principalmente puntare l’educazione umana. Essa dovrà donare all'uomo la conoscenza esperienziale profonda delle ultime cause, e quindi della ragione della sua esistenza e del fine ultimo della sua vita, senza la quale la scienza e l’educazione diventano un fallimento. La sapienza è, per Tommaso, un abito sublime che, in certo modo, sintetizza trascendentemente e la perfezione dell’abito naturale dell’intelletto, in quanto che adesso si mostra non soltanto come capacità per vedere i principi indimostrabili della essenza delle cose, quelli che si hanno per induzione, ma anche, e più profondamente, come capacità di vedere i principi indimostrabili dello stesso essere, quelli che si hanno per semplice intelligenza, come una capacità di cogliere i principi dell’“ente”, intesso come sintesi di essenza ed atto di essere; e la perfezione dell’abito della scienza esperta, in quanto che essa stessa appare scienza sublime perfetta, capace di applicare la certezza trascendente dei principi indimostrabili dell’ente ad ogni realtà possibile (VI Ethic., lc. 5 n. 9).

A conseguire questa educazione sono destinate la “inventio” e la “disciplina” o arte dell’insegnamento propria del Magister. Insegnare consiste essenzialmente in una co-operazione che ha come supporto o premessa l’operazione intellettuale del discepolo: come la medicina, che “conforta e somministra gli strumenti e gli ausili che la stessa natura adopera per produrre l’effetto” (I, q. 117, a. 1). Ma la stessa istruzione o educazione intellettiva per farsi “umanamente”, dovrà avere conto delle virtù morali, sia che si attenda alla loro genesi, al loro possesso o al loro uso. In questo modo le virtù intellettive, che in sé sono più nobili delle morali, per diventare veramente virtù “umane” dovranno integrarsi nelle virtù morali, che riguardano gli atti con cui si raggiunge il bene umano: non tanto nella sua “idealità” o verità conosciuta (veritas est “in mente”) su cui puntano gli atti conoscitivi, quanto nella sua “realtà” o “bontà posseduta” (bonitas est “in re”) su cui puntano gli atti appetitivi.

Oltre l’educazione dell’intelletto, l’uomo ha bisogno anche di educare la volontà. L’educazione morale prende su di sé questo incarico, facendo si che “l’uomo perfezioni la parte appetitiva dell’anima, ordinandola al bene della ragione” (1-2, q. 59, a. 4), puntando così al governo ragionevole di noi stessi. Adesso, come dice Tommaso dell’Etica in generale: “non trattiamo di sapere che cosa è la virtù solo per conoscere la sua verità, ma affinché acquistando la virtù diventiamo buoni” (III Ethic., lc. 2); non si tratta di procurarsi un buon sapere ma un buon appetire, instaurando nell'appetito l’inclinazione costante ad agire bene: all'agire da uomini buoni, non “in un genere”, ma “semplicemente buoni”.

Si ha un principato politico e regale, quando si governano degli uomini liberi, i quali, benché siano soggetti all'autorità di un capo, conservano tuttavia qualche cosa di proprio, che dà loro la possibilità di resistere a chi comanda. In maniera analoga si dice che l’anima governa il corpo con un dominio dispotico, perché le membra di esso non possono per niente resistere al comando dell’anima, ma immediatamente la mano o il piede si muove dietro l’impulso appetitivo dell’anima; e così ogni membro, che per natura si muove dietro l’impulso della volontà. Ora, noi affermiamo che l’intelletto, o ragione, comanda all'irascibile e al concupiscibile con un potere politico: perché l’appetito sensitivo ha qualche cosa di proprio, per cui può resistere al comando della ragione. Infatti l’appetito sensitivo può subire naturalmente anche l’impulso dell’immaginazione e del senso; e non soltanto quello dell’estimativa, se trattasi degli animali, o della cogitativa dell’uomo, che è governata dalla ragione universale. E infatti noi sperimentiamo che l’irascibile e il concupiscibile si oppongono alla ragione, quando sentiamo o immaginiamo un piacere che la ragione proibisce, oppure quando concepiamo una cosa sgradevole che la ragione comanda. E così, sebbene l’irascibile e il concupiscibile in alcune cose contrastano la ragione, ciò non esclude che anche la obbediscano” (I, q. 81 a. 3 ad 2). “Appare così che le virtù morali non sono in noi dalla natura, né sono in noi contro la natura; ma incontrano in noi un’attitudine naturale per riceverle, in quanto che la potenza appetitiva si trova in noi connaturata per obbedire alla ragione. Esse raggiungono in noi il loro compimento mediante la consuetudine, dal fatto che attuando ripetutamente secondo la ragione, la forma della ragione si imprime nella potenza appetitiva, e quest’impressione non è altro che la virtù morale” (II Ethic., lc. 1, n. 249). Ora l’ordine della ragione, originato “in astratto o in indeterminato” dal primo principio dell’intelletto pratico o sinderesi, che risuona nella coscienza con la forza imperativa di un comando, non può raggiungere la concrezione conclusiva degli atti umani, ed è destinato a risultare inefficace se non è condotto fino a questo termine da una ragione pratica energica, dotata di un imperium capace di stabilire i fini, verificando insieme e l’ordine della ragione e la rettitudine degli appetiti incaricati di eseguirlo.

Il nome di questa ragione pratica è “prudenza”; definita come una “recta ratio agibilium”, che Tommaso chiama “auriga” di tutte le virtù morali (II Sent., d. 41, q. 1, a. 1 ob. 3); un auriga che tiene un piede nella ragione, discernendo fini e applicando mezzi, e un piede nell'appetito, controllando emozioni che possono oscurare e deviare dal retto giudizio morale. Perciò, la prudenza sarà insieme virtù intellettiva e virtù morale, con visione chiara nell'ordine dell’intenzione e con forza pratica nell'ordine dell’esecuzione.  Ma la prudenza non potrà in concreto stabilire bene il fine e determinare i mezzi nell'ordine dell’intenzione, mentre perduri il disordine emotivo delle passioni. Deve quindi contenere sotto il freno della volontà l’invasione di questo disordine emotivo, ma ciò dovrà farlo anche mediante una moderazione ragionevole che porti l’animo ad uno stato di “temperanza”, al di sopra della sola “continentia”. Mentre nella fase esecutiva dovrà rinvigorire la volontà con amore del bene razionale capace di mantenere docilmente sottomesso al suo impero l’appetito del bene sensibile, sia concupiscibile che irascibile, con capacità di utilizzare le loro energie passionali per il miglior rendimento dell’atto umano. Sorgerà, così, insieme alla prudenza, altra disposizione morale della volontà che vuole realizzare, in ogni azione, il bene dovuto della ragione (giustizia) e trova docilità moderata nel concupiscibile (temperanza) e coraggio regolato nell'irascibile (fortezza).

Da tutto ciò, appare chiaro il primato delle virtù morali nell'educazione umana che, facendo buona la volontà, rendono anche semplicemente buono l’uomo di questa volontà; mentre tutte le altre educazioni dell’uomo, la corporale, la sensibile e l’intellettiva, rendono l’uomo buono soltanto sotto qualche aspetto, e raggiungono così il rango di “educazione” nella misura che servono all'educazione morale. “La prudenza secondo la sua essenza è una virtù intellettuale; ma secondo la sua materia conviene con le virtù morali: essa infatti è una retta ragione delle cose da agire” (1-2, q. 58, a. 3 ad 1).

Come potenza subordinata alla ragione il senso diviene educabile. La ragione deliberata deve poco a poco imporre alla sensibilità, a modo di abito virtuoso, il giogo dello spirito. L’uomo è così chiamato anche a ricostruire la sua armonia originaria, l’unità interiore anima-corpo, e a rinvigorire il suo ordinamento alla virtù.

 [Foto: Charles de La Fosse - Clizia trasformata in girasole] 

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