lunedì 10 marzo 2014

Perché scrivere di libertà e politica in Caterina da Siena?


L’ambizione è quella di offrire un contributo di cocente attualità all'interno del mondo contemporaneo, accogliendone le sfide radicali, in un sentimento di costruzione sull'esperienza di chi, mantellata dell'ordine domenicano, nell'età in cui altro non si era che sottomesse, osa alzare lo sguardo e far sentire la voce nel mondo maschile ed ecclesiastico invece di pregare nell'ombra e senza clamore. Solo la forza della sua parola e la testimonianza della vita, unite ad una palese ispirazione dall'Alto, hanno avuto la meglio sul pregiudizio e il sospetto, legittimo all'epoca, di essere dinanzi ad una ambiziosa protagonista visionaria.


La sua era un’arsura di dedizione viva, travolgente che desiderò compartire con gli altri. Di Lei fermezza, temperata da dolcezza e autorevolezza volitiva, costituiscono esempio di congruità della vita.

Non fu quella di Caterina una missione precipuamente spirituale, teorica. Siamo nel XIV sec., nella vicenda complessa della cattività Avignonese, il ritorno del papato a Roma è la grande questione che assorbe le energie di Caterina. Fu protagonista di un'intensa attività di consiglio spirituale nei confronti di ogni categoria di persone: nobili e uomini politici, artisti e gente del popolo, persone consacrate, ecclesiastici, compreso Papa Gregorio XI che in quel periodo, appunto, risiedeva ad Avignone e che Caterina esortò energicamente ed efficacemente a fare ritorno a Roma. Siamo nel momento del ritorno da Avignone a Roma, un negozio assai delicato e tanto atteso per risolvere una situazione nella quale nepotismo e interessi politici ebbero la meglio per lunghi decenni sulla missione apostolica propriamente intesa. Lo stato morale della Chiesa, la minaccia turca, la guerra con Firenze e i rischi del nazionalismo che gravano la scena politica del XIV secolo necessitano una riforma prima di tutto interiore, e per giungere al dominio di sé bisogna “lavorare sull’ordine interiore delle tre potenze cardine dell’uomo: memoria, intelletto, volontà”. Caterina viaggiò molto per sollecitare la riforma interiore della Chiesa e per favorire la pace tra gli Stati. Ella ci insegna che è necessario saper essere fermi nei proponimenti e detterà la massima: «spesso la pietà è grandissima crudeltà».
               
Caterina, quindi, portatrice sana di valori - che valicano i tempi - vive di un’intensità estrema, non estremista, il suo essere persona, il suo essere donna, il suo essere innamorata del Bene e desiderarlo per ognuno. Racconta di se, contestualmente però racconta il genere umano, quindi racconta di ognuno di noi, e affiora così la sua originalità, che trova sede nella concezione della Persona in simmetrica rispondenza con la definizione che ne dà l’ineguagliabile dottore Tommaso d’Aquino: “Sostanza individua di natura razionale, dotata di intelletto e volontà”. Per Caterina ciò che consente all'uomo la scelta, l’uso consapevole della libertà è la «ragione» unita alla «fede». In sintonia con il pensiero dell’Aquinate, Caterina non mortifica ma esalta il valore della ragione. Tale sollecitazione indica come l’uomo sia libero ed è perciò protagonista della sua storia e, com’esecutore libero e responsabile del fine sostanziale della sua natura, è continuamente chiamato a impegnarsi nel perfezionamento umano e morale di sé.

Il suo pensiero politico ebbe come punto di partenza, il riconoscimento del valore e della dignità della persona umana e della strumentalità della società rispetto al destino eterno della persona. Secondo Caterina, la società civile doveva essere in funzione e al servizio dell’uomo e perciò non poteva avere altra finalità che quella di favorire e di rendere possibile il completo sviluppo delle persone. Fine della società, per lei, non fu l’interesse di alcuni, di un gruppo, di una fazione, di un partito, ma il «bene universale e comune» che assicurava alla vita sociale un ordinato sviluppo. Caterina fu tutta intenta a svolgere un’opera non immediatamente di carattere religioso, ma addirittura politico, di riconciliazione e di pace. Ella abbatté tutte le convenzioni sociali del suo tempo, nonché le ristrettezze mentali, anche ecclesiastiche, riguardo alla donna, e si pose su tutti i fronti dove l’uomo combatte in favore della verità, della giustizia, della pace, senza giudicare nulla come impossibile, difficile, inadeguato, alla sua condizione di donna del popolo e, inoltre, analfabeta. S. Caterina da Siena, ha detto Giovanni Paolo II, conobbe «la parola della riconciliazione» e la pronunciò in un tempo difficile per la Chiesa e il mondo.

Caterina può sembrare a volte assolutista, integralista, perfino in qualche caso “supponente” e, ancora, non priva di qualche atteggiamento d’arroganza; in realtà è pervasa da una profondissima umiltà e da un grande senso della realtà della condizione umana. Può dare l’impressione di essere utopistica e, invero, esprime la sua infinita ambizione perché l’uomo, il singolo uomo, dia il meglio di sé, sotto la sferza della volontà. La sua voce insiste sull’“impegno”. Ciascuno deve fare secondo le sue forze: è impegno della creatura umana giovarsi dei propri talenti. Ecco il mito della volontà; non già la mera intenzione, ulteriore punto d’attenzione, ma l’intenzione, seguita dall'impegno comportamentale; non soltanto esteriore, pur importantissimo, ma anzitutto l’atteggiamento interiore profondo, della mente e del cuore ha una sua innegabile rilevanza. Parlerà pertanto di libertà come “tesoro che Dio ha dato nell'anima”. L’anima è libera nelle sue scelte: “L’anima ch’è fatta d’amore e creata per amore alla immagine e similitudine di Dio, non può vivere senza amore; né amerebbe senza il lume. Onde se vuole amare, si conviene che vegga”.                                                                                                                                                                                          
Nelle sue Lettere emerge in qual misura la dignità personale dell’uomo sia il fondamento, la sicurezza e il valore della sua abilità politica.

Anche oggi, senza «confessionalismo» ma col vigore di una coscienza cristiana illuminata e intemerata, la Senese insegna a tutti, altresì ai politici, la carità che non solo è il valore centrale dell’etica cristiana, ma anche la fonte inesausta di una vera civiltà. È la giustizia, Ella lo insegnò, che assicura il bene individuale e il bene comune. Anche la giustizia individuale deve essere coordinata con la giustizia universale, perché la virtù è unica e unitaria così come la carità. Se subisce un’ingiustizia un singolo, la subisce tutta la società, per non dire poi di quando il bene comune universale è spacciato allorquando copre un interesse personale del detentore del potere, il quale così si sottrae al dovere di servizio e privatizza egoisticamente la funzione che la società gli attribuisce unicamente nell'interesse collettivo.

Tutta l’attività pubblica di Caterina è protesa, qui sta la sua universalità e la sua attualità, a richiamare gli uomini a un mutamento, anzi a una trasformazione radicale intima della persona. Ella mostra di non credere molto alle modifiche di struttura di un sistema o di un ordinamento, e tenta di fare breccia nelle menti e nei cuori: l’uomo, la persona prima di tutto. La politica, nella concezione cateriniana, trova la sua ragione e, allo stesso tempo, i rispettivi limiti, nella direzione della persona umana, rilevando che è la società al servizio dell’uomo e non già l’uomo al servizio della società, secondo anche una cristallina tomistica concezione della sussidiarietà del pubblico rispetto al privato.
Evidenzia come: «Tre sono i peccati fondamentali dell’uomo politico e del pubblico amministratore: evitare la contesa, rimandare la decisione e tollerare il male». Peccati che essa riassume nel: “sonno della negligenza”. Il pensiero espresso nelle Lettere continua: «chi non sa governare se stesso, non può governare gli altri».

Caterina non esclude la disparità d’opinioni, il pluralismo culturale e ideologico, quello che oggi diremmo partitismo; predica la tolleranza, la sostanziale unità, la capacità di superamento delle divisioni per realizzare i denominatori comuni. Sembra di poter immaginare la Santa come un personaggio forte, altissimo che punta l’indice contro i governanti, ma non tanto per accusarli, bensì per esortarli a capire e a ricordarsi un’idea essenziale: la “città”, in altre parole il potere civico, non è data a loro per loro stessi; essa è invece data loro “in prestito” perché ne facciano buon governo, in pratica esercitino correttamente il potere, per il servizio in favore dei governati. Non quindi un fatto arricchente, ma un fatto responsabilizzante.

''La funzione civile, ha osservato S.S. Benedetto XVI, è talmente eminente e insigne da rivestire un carattere quasi 'sacro'; pertanto essa richiede di venire esercitata con grande dignità e vivo senso di responsabilità''.

Con la perdita, a livello sociale e politico, di una comune visione del bene, ciò che resta è un insieme d’individui con interessi particolari e fra loro discordanti, la cui convivenza è garantita da un sistema di regole pratiche. In concreto, la giustizia non avendo più alcun riferimento con il bene, ha perso il suo ruolo di virtù, è identificata con il sistema di leggi inter soggettive, destinate ad assicurare la convivenza civile. Essere giusto, oggi, non significa dare a ciascuno ciò di cui ha bisogno per realizzare il suo telos sostanziale come cittadino, bensì significa limitarsi a un rispetto formale e giuridico delle regole comuni di vita. Ne consegue che, da una parte, il bene non compreso più come un’istanza complessiva e oggettiva di senso, esce dalla scena morale divenendo fulcro d’interesse soggettivo e di felicità individuale. D’altra parte la giustizia, come valore culturale della vita sociale e della cooperazione umana, è diventata il luogo dell’imparzialità e della morale legalitaria. La domanda morale fondamentale si concentra su cosa ho il dovere di fare in rapporto agli altri, e trascura completamente il problema eudemonistico della libera e responsabile formazione morale di sé, considerandolo legato a fattori empirici e soggettivi.

I cristiani, diceva un grande filosofo del ‘900, Hans von Balthasar, sono «i guardiani di una metafisica della persona integrale in un’epoca che ha dimenticato tanto l’Essere quanto Dio». Essi portano la responsabilità  di tener vivo l’amore colmo di stupore che è il punto di origine di una esistenza autenticamente umana e include l’intero cosmo nella sua ampiezza. Ci ricorda, inoltre, S. Tommaso,  che “la fede emotiva non è fede, le emozioni non sono il soggetto della fede, soggetto della fede è l’intelletto speculativo”. Prendendo spunto da questo concetto, reso altamente operativo da Caterina, si potrebbe pensare, permettetemelo, a un’analogia propositiva per l’arte del governo della cosa pubblica, in tutti i suoi ambiti: la politica emotiva non è politica, l’emotività non è il soggetto della politica, soggetto della politica è l’intelletto speculativo che induce all'azione responsabile, capace sicuramente di emozionare ma nell’esercizio pratico della “carità intellettuale”.

Formare, guidare, educare è, pertanto, un atto d'Amore, esercizio della “carità intellettuale”, che richiede responsabilità, dedizione, coerenza di vita e che, nel contempo, diviene bellezza dell’essere. L’amore non è solo nelle cose che diciamo quanto piuttosto e soprattutto in quello che facciamo, operiamo. Comune denominatore della bellezza e dell’amore è la gratuità, e la tenacia di una figura esemplare qual è Caterina, Dottore della Chiesa, ne è chiara testimonianza edificante. Fare tesoro di tale umano esempio di capacità comunicativa, di coraggio, risolutezza per il bene intendere operare di libertà e di politica, diventa ricchezza morale e patrimonio praticabile, nonché vigoroso stimolo di speranza, per un orizzonte di  decisa lungimiranza costruttiva.


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