domenica 15 aprile 2012

Virtù della Fortezza, desiderio di vigore dell'animo umano

Insegna S. Agostino: “L’amore della verità cerca la quiete della contemplazione, il dovere dell’amore accetta l’attività dell’apostolato. Se questo peso nessuno ce lo impone, dobbiamo attendere alla ricerca e all’acquisto della verità; se ci è imposto, dobbiamo accettarlo per il dovere della carità. Ma neppure in questo caso dobbiamo abbandonare il diletto della verità, perché non avvenga che, sottrattaci questa dolcezza, ci opprima quel dovere”. Tuttavia, come tutto ciò diviene comprensibile senza l’ausilio delle Virtù? Hanno esse ancora ragione d’esistere nell’attuale società?

La parola “Virtù” sembra oggi essere esanime, o per lo meno va indebolendosi. Non sono soltanto le virtù teologali: fede, speranza, carità, ad affievolirsi nell’anima degli uomini, ma anche le virtù cardinali: prudenza, giustizia, fortezza e temperanza. Le virtù, desuete nei costumi moderni, che la morale antica aveva innalzato a cardini sollecitanti tutta la vita umana e che il cristianesimo ha assorbito alla sua concezione delle relazioni dell'uomo con il suo fine supremo, sembrano aver ceduto il passo alle divagazioni non virtuose, viziose espressioni della debolezza più inetta riscontrabile nell’uomo: i famosi ‘ni’ della pusillanimità, tiepidezza caratteriale, silenzi compiacenti e assordanti, apoteosi dell’ipocrisia e volubilità.

Conviene ricordare che le virtù, sebbene distinte secondo i rispettivi oggetti, non si possono coltivare l’una indipendentemente dalle altre. Le virtù sono strettamente connesse tra di loro: come può essere prudente l’uomo che trasgredisce la giustizia? Come può un giudice esser giusto, se non ha la fortezza che lo rende capace di resistere alle pressioni del potere? Come può agire e reagire il forte, se si abbandona a tutte le concupiscenze?
È indubbiamente la fortezza la virtù con cui la prudenza ha le maggiori affinità. È, infatti, carattere proprio delle virtù morali di assicurare la retta valutazione del fine, al cui servizio la prudenza dispone le sue scelte e i suoi imperativi concreti; e tale fine è sempre il compimento, nell'uomo, della sua natura e l'espandersi del germe soprannaturale che Dio liberamente vi depone: “E vanno gli uomini a contemplare le vette delle montagne, gli enormi flutti del mare, le lunghe correnti dei fiumi, l’immensità dell’oceano, il corso degli astri, e non pensano a se stessi”. (Confessioni, X, 8,15).

I due atti principali della fortezza, che sono resistere al timore della morte fisica nei combattimenti e attaccare con audacia ogni aggressore che mira a far perdere i beni necessari o utili alla vita temporale di chi gli resiste, richiedono altresì un orizzonte applicativo più ampio. Altro è, infatti, affrontare la morte fisica in un combattimento corpo a corpo con un avversario che vuole soltanto togliere la vita e non pensa minimamente di intaccarne l’intelligenza, piuttosto soltanto sottoporla al dominio della sua, come era condizione nel medioevo; altra cosa è trovarsi di fronte ad un sistema di pressioni esterne - come nella società moderna - che impediscono la funzione conoscitiva, che mira, simultaneamente, a impossessarsi del nostro essere sociale con una serie di mezzi che sanno di falsa informazione, riplasmando la nostra essenza secondo il modello di un’ideologia di abusato ‘bonum facere’, che si pretende creatrice di una “nuova società”.

Tutto ciò che presuppone l’antico adagio “Gratia supponit naturam et perficit eam”, “La grazia presuppone la natura e la porta a compimento”, non può sbocciare in un essere sprovvisto d’intelligenza e mutilato delle sue radici sociali, e subisce ormai l’assalto delle potenze di morte - buio dell’anima - che violentano la natura stessa dell'uomo. Dinanzi a tale scatenarsi del nichilismo, la virtù della fortezza riveste un’importanza inestimabile, diviene conservatrice dell'essenza umana, il cui compiersi nell'esistenza costituisce il fine stesso di tutte le azioni morali che la prudenza regola ispirandosi ai suoi imperativi. Basta, del resto, osservare le conseguenze che implica per la natura umana, e per i beni più preziosi ai quali essa è indirizzata, il contrario della forza: la debolezza.
Si assiste a un’epoca in cui la densità alle più insane assurdità comportamentali è universale, in cui l’‘autorità’, custode del bene comune, tanto nella Città quanto in alcune sfere nella Chiesa, viene meno, si sfibra, abdica ogni momento; in cui le volontà di potenza, scatenate dappertutto, non cessano di trasfondere, a tutti quelli che esercitano ancora la virtù della fortezza e respingono la sovversione di tutti i valori, una coscienza turbata di fronte alla loro fermezza e agli atti che ne derivano.

Non credo sia esagerato affermare che l’‘ecumenismo dell’irresolutezza’ - il solo che si riscontri negli atti - è la diretta conseguenza di tale svirilizzazione morale. In virtù di una legge che governa sia la natura fisica in genere, sia quella dell’uomo in particolare, come pure la sua natura morale, sociale, intellettuale, ogni debolezza ingenera la violenza e la negazione dell’amore per l’altro. Asseriva Pascal: il nostro più grande peccato è quello di omissione: bene non fatto, responsabilità non vissute, gesti buoni e doverosi non compiuti, impegni disattesi. La fortezza sembra oggigiorno relativa ai fautori di disordine, che si sforzano di sostituire all’essenza dell’uomo, nata da Dio, una costruzione debole del loro spirito.

Altresì necessario è la comprensione autentica del senso della giustizia*, quella giustizia che è tanto più generalmente abbandonata in quanto concerne il bene comune. È, credo, l’asserzione ipocrita più sfacciata del mondo moderno, l’aver chiamato giustizia sociale ciò di cui, con questo nome, non rimane altro che una materia esanime. Quello che i nostri contemporanei intendono per giustizia sociale è di rendere il dovuto a ciascuno, preso individualmente, su un piede d’eguaglianza con tutti gli altri membri del gruppo di cui fa parte, - che già sarebbe qualcosa -. Tuttavia una società siffatta è la negazione, e distruzione della società. È propriamente una “non società”, perché composta da chicchi di grano rigorosamente eguali e ognuno dei quali, nulla potendo avere in più o in meno degli altri, nell’assoluta mancanza di rispetto della libera potenzialità, non può quindi rendere agli altri quanto è loro dovuto. Per mantenere l’ordine e la coesione in una simile società, non resta che la costrizione. I chicchi di grano - che saremmo noi - vengono mantenuti uniti sotto la pressione costante di un pugno di forza, che li limita nel non rispetto del proprio essere umani, e nel non lasciarli liberi di ascendere secondo il proprio potenziale naturale.
  
Ecco che la virtù della fortezza che, come dice Tommaso d'Aquino, consiste nell’“operare fermamente”, nel rimuovere ostacoli e nel coraggio con cui affrontare le difficoltà, è, innanzi tutto, una virtù improntata a verità.  
La fortezza ci da subito l'idea di qualche cosa che apre gli orizzonti della grandezza d’animo e della generosità, del vigore dell’animo nel compimento del proprio dovere, quindi, anche del superamento delle iniquità e della debolezza, perseguendo, così, consapevolmente, l’esortazione di S. Agostino: “Ama, e fa ciò che vuoi. Se tu taci, taci per amore; se tu parli, parla per amore; se tu correggi, correggi per amore; se tu perdoni, perdona per amore. Sia in te la radice dell'amore, e da questa radice non può derivare se non il bene”. 


* Cfr. M. F. Carnea, Il Concetto di giustizia in S. Tommaso d'Aquino, in Reportata, 2012.

[Foto: La Fortezza - Botticelli]

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