martedì 6 febbraio 2018

Riaccendere un umanesimo politico

Di umanesimo politico si deve parlare: disporre tutto il proprio impegno sociale in funzione della persona, dei suoi valori, al fine di ravvivarne senso etico. Lo Stato acquista autorità proprio per salvaguardare queste realtà preesistenti ad esso, e deve potersi caratterizzare ripudiando ogni idealismo o utopia politica. Un sano realismo fortifica, permea tutta una concezione politica che è espressione di una intrinseca visione naturale. 

Se l’uomo realizza nell’azione politica i valori della sua personalità, per cui agere sequitur esse, e nel compiere azioni li incrementa, la politica non servirà solo a studiare i mezzi di valorizzazione di vita sociale, ma a provvedere, altresì, ad alimentare una visione di crescita piena e feconda di valori nella società, diversamente ingannata da accomodanti quanti impropri interessi di parte, cui unico fine è falsificare il bene, impoverire i territori.

Nel pensiero di Tommaso d’Aquino, la società è il mezzo per la libera esplicazione delle umane potenzialità: naturaliter homo homini amicus. Ecco che, da questo spunto, può riaccendersi il faro politico.
Necessario, però, è capire per poter fare la differenza. La società politica è sorta come uno strumento verso il bene comune da attuare. Rispetto alla natura della società, il bene comune di una collettività è la causa finale in cui essa sorge. Quindi, quest’ultimo - il bene comune -, non può essere mai sacrificato ad astratti interessi - di una indefinita società - che si contrapponga al bene comune, per cui essa ha avuto origine. 

Cerchiamo di comprendere perché non si può procedere contro natura sociale. Se l’uomo si riunisce in società per attuare un bene comune, ne consegue che la socialità non è solo una predisposizione naturale, ma anche una partecipazione volontaria: il nascere in una società non esclude che si accetti volontariamente quel legame che abbiamo con essa. Noi lo accettiamo finché vediamo rispettati i nostri diritti naturali, finché vediamo che non è violata la legge naturale che è in noi. Infatti è la legge naturale la norma che regola i rapporti umani: la società deve tenere presenti le sollecitazioni di questo primo diritto innato.

Ergo: il diritto naturale non è una scoperta di Tommaso d’Aquino, è piuttosto un argomento con cui l’Aquinate supera la tradizione greca, avvicinandosi alla tradizione romana, quella Giusnaturalistica. In particolare si rifà allo jus naturale di Ulpiano. Aristotele si era fermato al concetto di iustum naturale. Il merito fondamentale dell’Aquinate, rispetto alla dottrina del diritto naturale, è di aver identificato la legge naturale con la natura. Ne derivano due assiomi: la legge naturale non è una norma che si sovrappone alla realtà umana, ma ha un preciso carattere di interiorità. La legge naturale, non in quanto naturale è istintiva ed irrazionale, ma ha sempre carattere di razionalità. Infatti ogni legge è una norma di ragione.

Come principio di condotta, era logico che san Tommaso attribuisse la legge ad un atto essenziale di ragione e non solo di volontà, in quanto, se nell’azione dobbiamo avere presenti i vari gradi dell’essere e compiere una scelta, questa scelta deve essere prima intellettiva, poi pratica. 

Anche se l’uomo non avesse in sé insita la legge naturale, dovrebbe sempre rifarsi alla natura, per prendere da essa lo schema della sua azione. Nel momento in cui l’individuo si pone di fronte a questi principi naturali, ecco che egli compie un’azione di ragionevolezza. La virtù che regola l’uomo nell’agire secondo i principi della legge interna a lui, ed a tutta l’umanità, è la virtù della giustizia: ordine dell’essere e dei vari enti in piena armonia, la cui manifestazione e traduzione esteriore è la pace, trasposizione in tranquillità dell’ordine, consonanza che la società oggi, però, ha perso.

È il caso di riaccendere un umanesimo politico? È il caso di auspicare il giusto?


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