venerdì 20 febbraio 2015

Coraggio, speranza, amore: contributo di edificazione del prossimo


Sosteneva Aristotele che ciò che dobbiamo imparare a fare, lo impariamo facendolo. Viviamo una difficoltà grave nel Paese, non solo economica, piuttosto strutturale della nostra democrazia, tutti coloro che lottarono per costruire un paese democratico, cattolico, liberale, hanno, con metodo e anche con sangue, lasciato in eredità educazione ai valori umani più sacri, un lascito di lealtà, rispetto, fraternità, volta alla conquista, tesoro inestimabile di libertà nazionale, titolarità del popolo a essere voce della politica. Assistiamo, invece, ed è aspetto di cocente attualità, all'incredibile artificio della menzogna, che non alimenta fiducia nei cittadini, come anche all'incredibile dato delle iniquità sociali. Il popolo che anela verità, coerenza, fiducia, responsabilità, si va sempre più scontrando con l’effimera insidia dell’inganno, e la menzogna è un’iniquità. Il Signore di sua propria bocca affermò: Sia sulla vostra bocca il sì, sì, e il no, no. Il di più viene dal maligno (Mt 5, 37). In questo senso anche s. Paolo, quando prescrive di spogliarsi dell’uomo vecchio, denominazione che abbraccia tutti i peccati, pone al principio questa ingiunzione: Pertanto gettate via la menzogna e parlate dicendo la verità (Ef 4, 25). 

Quando si parla agli uomini occorre dire il vero, in coerenza con i fatti, anche con la bocca, perché all'uomo non è dato penetrare nel cuore, questo lo può solo Nostro Signore.
Leggiamo nel Vangelo: Hai ricevuto uno schiaffo? Presenta l’altra guancia (Mt 5, 39). Orbene, della pazienza noi non troviamo un esempio più forte e sublime di quello datoci dal Signore stesso: Egli, quando fu schiaffeggiato non disse: “Eccoti l’altra guancia”, ma: Se ho parlato male rimproverami del male; se invece ho parlato bene perché mi percuoti? (Gv 18, 23). Con ciò dimostra che l’offerta dell’altra guancia è da farsi nel cuore. 
Non si può quindi chiedere alle persone in sofferenza di continuare a porre l’altra guancia a un non fare politico cui assistiamo, improponibile, che ha generato la situazione di malessere che viviamo, annichilendo volontà e voce di rappresentanza.

Circa l’incredibile dato delle iniquità sociali, di rimando ad uno stato di giustizia a dir poco dissestato, mi chiedo che fine abbia fatto quella tanto nobile espressione: epicheia. Il bene comune è sempre l’oggetto dell’intenzione del legislatore. La legge è fondamentalmente opera della ragione, e in virtù della sua razionalità mirante al bene comune obbliga le coscienze. Urge, nel tempo reale attuale, un’inversione di tendenza e applicazione pratica dell’epicheia nel senso aristotelico e tomista, ciò non può che fare bene al bene comune, al legislatore a vantaggio del valore morale per la communis utilitas, piuttosto che per la personale utilitas. Un nobile criterio di equità intra leges fa progredire un più sano sviluppo umano, bene primo cui deve tendere il bonum facere politico, poiché,  con s. Tommaso, epicheia è “degna di lode”.

L’epicheia è una virtù che sta tra due estremi viziosi: la rigidità legalistica, che può arrivare ad essere gravemente lesiva del bene comune, e il lassismo di colui che, senza fondamento valido, considera lecito per sé ciò che la legge vieta agli altri.
Dunque, l’epicheia è una virtù morale dell’uomo, di ogni uomo e non specificamente del governante; è una disposizione dell’uomo virtuoso, vale a dire, una delle virtù del ben vivere o della vita buona. Da ciò segue che l’epicheia non è, sul piano sostanziale, qualcosa di meno buono o di meno rigoroso che, in alcuni casi, tenute presenti le circostanze, può essere più o meno tollerato. Essa, come virtù, è il principio che permette la formazione di una scelta non solo buona, ma addirittura virtuosa, e quindi eccellente e ottima. Perciò dice Aristotele che «l’equo è giusto, anzi migliore di un certo tipo di giusto». Per s. Tommaso d’Aquino le virtù sono le basi delle norme, e che una norma è giustificata quando esprime fedelmente le esigenze positive o negative della virtù, giacché il fine delle norme è quello di aiutare gli uomini a acquisire e praticare le virtù. Ciò permette anche di capire che l’Aquinate concepisce la legge come un principio positivo. Il suo atteggiamento non è quello di colui che pensa alla legge come a un inevitabile limite della libertà. La legge è per l’Angelico un principio di formazione della libertà umana in ordine al raggiungimento di una vita umana e cristiana ben riuscita all'interno di una comunità. La legge è il cammino verso la pienezza della vita cristiana.

Il pensiero morale di s. Tommaso è basato certamente sull'idea di ordine, ma di un ordine che richiede la presenza attiva dell’uomo come suo vigile custode. Attraverso la virtù dell’epicheia «l’uomo coopera al mantenimento di quest’ordine, per ciò che è ordine umano, nelle sue finalità proprie, quindi nella sua razionalità, nel suo essere rivolto a Dio».

E, in seguito all'indebolimento delle politiche sociali cui assistiamo, non giunge mai improprio il pensiero dei poeti, poesia che manca alla società, perduta nell'aridità di un tecnicismo che ha solo impoverito gli animi, facendo dimenticare la nostra natura finita ma, allo stesso tempo, infinita se capace di lasciare traccia di sé. E con S. Agostino: “La speranza ha due bei figli: lo sdegno e il coraggio. Lo sdegno nel vedere come vanno le cose e il coraggio di intravedere come potrebbero andare”. Perduto è tutto il tempo che in amor non si spende, e cos'altro è amore se non contributo di edificazione del prossimo, per se stesso e per la società?

Ergo, e senza timori: coraggio, speranza e amore siano il nostro motore. Altro non dico!

[Foto: Michelangelo, Isaia]

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