giovedì 12 giugno 2014

Dialettica e metodo: urge in politica conoscere la verità, ma anche saperla comunicare


La peculiarità umana consegna l'uomo alla dialettica, al dialogo, all'infinito procedere della ricerca, e il vantaggio della comunicazione orale consiste nel fatto che essa, a differenza di quella scritta, concede al discorso una infinita capacità di rivedere se stesso: l'uomo ha la capacità di cogliere la verità, tuttavia ciò che rimane provvisorio è la sua formulazione nei logoi, nei discorsi, poiché l'uomo è calato in un divenire da cui non può svincolarsi. Di fatto la condizione dell'uomo fa sì che non abbia accesso diretto alla verità eterna, seppure animato da una condizione di perfettibilità.

Questo accesso diretto sarebbe possibile se l’uomo fosse riducibile alla sua anima, perché in tal caso potrebbe cogliere le idee immobili, di verità eterna, in maniera immediata e intuitiva. Ciò, però, non accade, cioè la conoscenza intellettuale non ha per l'uomo l'evidenza incontrovertibile della visione, quindi è necessario affidare buona parte della conoscenza a un mezzo più debole, oggi molto in voga, e non nella sua accezione luminosa, cioè la persuasione: dove non si può far vedere una cosa in modo immediato, allora la persuasione gioca un ruolo risolutivo. La scelta di comunicare il pensiero attraverso il dialogo consegue all'esigenza di stabilire un rapporto interpersonale, nei limiti del possibile, persuasivo. Il dialogo serve a suscitare un moto attivo di partecipazione, ha lo scopo di indurre il lettore a prendere l'iniziativa nella discussione dell'argomento e di stimolare la sua interazione. In altre parole, intento del filosofo è di elaborare un testo che susciti domande, che induca a una ricerca autonoma. E cosa c’è di più edificante se non la capacità di far partorire la propria mente?

Per affrontare un’analisi di costrutto, è necessario scegliere un metodo che arrivi a un sapere esaustivo. La scrittura è molto esposta al rischio di fraintendimenti, perché non può difendersi da sola, né chiarire ciò che dice in modo da assicurarsi che sia stato recepito nel giusto significato. Del resto questa dei fraintendimenti è un'esperienza piuttosto comune: molto spesso anche sui giornali assistiamo a polemiche nate da dichiarazioni riportate in un articolo, e interpretate dal giornalista o da altri, in un modo che poi è smentito dalla persona stessa che le ha rilasciate. Non è semplice far capire correttamente la propria opinione, ossia comunicare la convinzione che le cose stiano veramente come si crede, soprattutto quando si ha che fare con principi filosofici astratti, che non possono essere esibiti in modo evidente. Altro, infatti, è comunicare ciò che si pensa, altro convincere della verità di ciò che si pensa. Si dà il caso però che solo quest'ultima condizione produce la trasmissione di un sapere: esso, infatti, non consiste nella trasmissione di un'informazione, ma nell'atto individuale di acquisizione che ciascuno compie nei confronti di ciò che gli viene insegnato. L'investigare socratico consiste nel porre le questioni in modo che l'interlocutore sia indotto a prendere parte attiva allo sviluppo del ragionamento, e raggiunga determinate conclusioni in seguito ad un moto di assenso spontaneo a determinate premesse. Senza questo moto di assenso spontaneo non si ha vera comunicazione, o meglio, comunicare non serve, perché produce una semplice acquisizione di informazioni che non fanno parte delle convinzioni personali. Il filosofo non rinuncia al dialogo, che costituisce la forma comunicativa più immediata e coinvolgente. In un passo del Fedro Socrate dice: la potenza del logos, da intendere come discorso o ragionamento, non è nient'altro che una conduzione dell'anima. In questo concetto si riconosce l'idea dell'educazione: anche in latino educare contiene l'idea del ducere, cioè del guidare a uno scopo.

Necessita trovare oggi i logoi più convincenti, in linea con interessi fondamentalmente etici, politici, educativi. Concetto chiave di ogni confronto è la “persuasione”, da sempre parola d'ordine dei sofisti. Ne è esempio evidente l'affermazione nel Gorgia secondo cui la parola è un pharmakon, cioè un potente narcotico ambivalente, in grado di produrre sia il bene sia il male. La potenza della ‘parola’ priva di conoscenza specifica, si rivela infelicemente superiore al possesso della scienza. Bisogna reagire contro questa esasperata esaltazione della persuasione. Ciò cui è necessario opporsi è all'arte di persuadere in quanto tale, priva di contenuto: Gorgia negava di insegnare alcunché, ma sosteneva di essere in grado di persuadere qualunque ascoltatore su qualunque argomento. È impellente, invece, la necessità di persuadere solo a partire dal possesso della veritàE' questo un dato di fatto che di solito non si vuole riconoscere: è necessario non solo conoscere la verità, ma anche saperla comunicare. Il semplice possesso della verità, senza la capacità di comunicarla agli altri in modo convincente, non produce alcun effetto. La verità esiste solo nella misura in cui è diffusa e condivisa, e implica perciò anch'essa un fondamentale rapporto con la persuasione. Agli occhi del filosofo il difetto dell'oratore è la superficialità, e la conseguente incapacità ad attingere il vero. Non vi può dunque essere persuasione senza un necessario riferimento alla verità e, per converso, la verità si manifesta solo nella persuasione. Un’armonica fusione dei due fattori produce illuminata cultura e educazione.

Il filosofo Marcel ha lanciato questa sfida all'essere umano facendo vedere come spesso gli uomini dimenticano il loro essere, dato che sono troppo preoccupati di dominare e di avere le cose del mondo. In realtà è all'essere che compete la supremazia sull'avere. Uno vale per ciò che è e non per ciò che ha. La dignità attiene alla sfera dell’essere più che dell’avere e l’uomo si rende degno conquistando la verità, dominando la materia nella misura in cui può plasmarla, in modo da lasciare la sua impronta nel mondo, e soprattutto compiendo le sue azioni con libertà e orientandole al bene. Ora, la critica filosofica inclina con il dire che Socrate arrivò fin qui, e che questo era appunto il suo metodo, niente altro che una tattica per incrinare il falso sapere, la sapienza superficiale e libresca degli eruditi, smascherando così l'inconsistenza dei sofisti e dei retori, lasciando, infine, agli interlocutori il compito di arrivare alle conclusioni. Dicendosi sapiente della propria ignoranza, egli smaschera, per così dire, la presunzione altrui, la presunta sapienza che gonfia i petti e rende arroganti. Tuttavia, in realtà, la confutazione socratica non è diretta solo contro la presunzione intellettuale dei retori e dei dotti, ma anche contro l’ignoranza vera e propria, l’ignoranza che l'uomo ha di se stesso e delle cose che hanno realmente un valore nella vita. Pertanto non si limita solo a far crollare certezze intellettuali infondate, ma anche valori morali, o per meglio dire, immorali.

Scrisse così Gianbattista Vico: “Chi pecca, cade per ignoranza, ciò lo insegna Socrate, il qual vuol parimente che in un qualche modo abbia la scienza ad essere riguardata come una virtù. Imperocché chi dopo diligente esame venisse a riconoscere chiaramente la verità, non solo dalla colpa si disporrebbe, ma anzi studierebbesi di rettamente operare. Ed aggiungeva, in guisa di esempio, il medesimo Socrate che niuno può essere né liberale, né magnifico, se non conosce la ragione del collocare i benefici, o dello spendere con magnificenza”.

[Foto: Paolo Caliari, detto il Veronese, Dialettica (Aracne)]


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