giovedì 27 marzo 2014

Epicheia: disposizione dell’uomo virtuoso a perfezione della giustizia


L’epicheia è “degna di lode” dice s. Tommaso d’Aquino, seguendo Aristotele; è una superiustitia per s. Alberto Magno, che è necessario chiamare in causa quando una legge umana deficit propter universale aliquo modo contrarie. L’epicheia è una virtù che sta tra due estremi viziosi: la rigidità legalistica, che può arrivare ad essere gravemente lesiva del bene comune, e il lassismo di colui che senza fondamento valido considera lecito per sé ciò che la legge vieta agli altri.



La figura dell’epicheia in Platone viene intesa come virtù esclusiva del governante, ben diversa dalla virtù morale propria dell’uomo in quanto tale che sarà prospettata da Aristotele. Per l’Aquinate l'epicheia è una virtù, vale a dire, un principio della ragione pratica che rende possibile la posizione di atti buoni ed eccellenti in tutte le situazioni in cui si ha a che fare con un'espressione linguistica normativa deficiens propter universale. Con parole di s. Agostino, la virtù è una buona qualità dell'anima qua recte vivitur, qua nemo male utitur, non può essere usata per il male.

Dunque, l’epicheia è una virtù morale dell’uomo, di ogni uomo e non specificamente del governante; è una disposizione dell’uomo virtuoso, vale a dire, una delle virtù del ben vivere o della vita buona. Da ciò segue che l’epicheia non è, sul piano sostanziale, qualcosa di meno buono o di meno rigoroso che, in alcuni casi, tenute presenti le circostanze, può essere più o meno tollerato. Essa, come virtù, è il principio che permette la formazione di una scelta non solo buona, ma addirittura virtuosa, e quindi eccellente e ottima. Perciò dice Aristotele che «l’equo è giusto, anzi migliore di un certo tipo di giusto». Quando si presenta il caso, l’epicheia non è qualcosa che può essere benevolmente invocata, ma è il principio necessario dell’unica scelta che, in quel caso, è giusta e virtuosa; senza di essa la scelta sarebbe stata moralmente negativa. 

Aristotele presenta l’epicheia come perfezione e coronamento della giustizia, e non come una tecnica interpretativa per diminuire le sue esigenze etiche. La definisce come un correttivo della legge, laddove la legge è difettosa a causa della sua universalità. Tuttavia Aristotele stesso sottolinea che il problema non è correggere un errore insito nella legge, ma dirigerla a una giusta applicazione al caso. Afferma Aristotele «non si può attribuire a determinati contenuti del diritto la dignità e l’immutabilità del diritto naturale».
S. Alberto Magno si muove sulla scia aristotelica quando afferma che l’epicheia è una virtù morale dell’uomo in quanto tale, e non del governante o del legislatore. Per s. Tommaso le virtù sono le basi delle norme, e che una norma è giustificata quando esprime fedelmente le esigenze positive o negative della virtù, giacché il fine delle norme è quello di aiutare gli uomini a acquisire e praticare le virtù (S. Th., I-II, q. 94, a. 3). Ciò permette anche di capire che l’Aquinate concepisce la legge come un principio positivo. Il suo atteggiamento non è quello di colui che pensa alla legge come a un inevitabile limite della libertà. La legge è per s. Tommaso un principio di formazione della libertà umana in ordine al raggiungimento di una vita umana e cristiana ben riuscita all’interno di una comunità. La legge è il cammino verso la pienezza della vita cristiana.

I criteri per i quali l’epicheia si regola sono: la ratio iustitiae e la communis utilitas. È virtù perché principio di un’opera buona e necessaria: nei casi in cui essa opera «malum esset sequi legem positam». L’epicheia non è un generalizzato atteggiamento di benevolenza, cioè non consiste nel “chiudere un occhio”; essa evita un’osservanza letterale della legge quando osservare letteralmente la legge “vitiosum est”; altresì comanda di andare oltre la lettera della legge quando l’osservanza letterale del precetto dia luogo a un comportamento o a una situazione positivamente ingiusta o cattiva. Il pensiero morale di s. Tommaso è basato certamente sull’idea di ordine, ma di un ordine che richiede la presenza attiva dell’uomo come suo vigile custode. Attraverso la virtù dell’epicheia «l’uomo coopera al mantenimento di quest’ordine, per ciò che è ordine umano, nelle sue finalità proprie, quindi nella sua razionalità, quindi nel suo essere rivolto a Dio. La libertà che dona l’epieikeia è quella stessa libertà che si identifica paradossalmente con l’ubbidienza più piena, anche se ‘piena’ non significa necessariamente ‘letterale’, la libertà di seguire la “prima regula, qua regulantur omnes rationales voluntates”, cioè la stessa divina voluntas (S. Th., II-II, q. 104, a. 1, ad 2), quella che costituisce l’uomo “secundum quod et ipse est suorum operum principium, quasi liberum arbitrium habens et suorum operum potestatem” (S. Th., I-II, prol.)».

A partire dal secolo XIV si va affermando progressivamente nelle grandi università europee l’orientamento volontarista. Nella tradizione volontarista nasce un nuovo modo di esporre scientificamente la morale cattolica. In esso acquista particolare rilievo la figura del legislatore, che con la sua volontà stabilisce precetti e impone dei fini. L’epicheia appare nuovamente collocata in un contesto politico, come virtù del supremo reggitore, dove «sembra da una parte identificarsi con la clemenza, secondo quella che fin dall’antichità era una delle sue molteplici anime, ma dall’altra sembra trascurare l’attenta fenomenologia della giustizia legale nel suo impatto con il concreto che costituisce indubbiamente l’aspetto più tipico della virtù nel senso aristotelico-tomistico». Dalla superiustitia di s. Alberto si passa ad una concezione dura dell’epicheia. Essa non è più la possibilità che ha l’uomo di far appello al reale (alla ratio iustitiae e alla communis utilitas), bensì «la bandiera della liberazione del soggetto da precetti che gli vengono ingiustificatamente imposti».

L’epicheia, nel senso aristotelico e tomista, tende a scomparire, perché viene sostituita dall’interpretazione della legge e dalla dispensa espressa o tacita. L’epicheia acquista una valenza fortemente polemica nel pensiero di Guglielmo di Ockham, avversario del potere pontificio e sostenitore della causa imperiale. Per la vis polemica di Ockham, funzione principale dell’epicheia è liberare il soggetto dall’osservanza della legge. E il motivo fondamentale è che per Ockham «compito dell’equità non è più la ricerca della giustizia, la volontà da parte del soggetto di farsi giusto, il che giustificherebbe la qualifica dell’equità come virtù, ma il discernimento dei casi in cui “leges sunt servandae” o meno. Non più dunque, come per l’Aquinate, come applicare la legge, ma se applicarla o no. L’equità non più dunque come valore morale, ma al più come valore politico».

Il bene comune è sempre l’oggetto dell’intenzione del legislatore. La legge è fondamentalmente opera della ragione, e in virtù della sua razionalità mirante al bene comune obbliga le coscienze e, con s. Tommaso, non può non intendersi la legge come ordinatio rationis ad bonum communePertanto urge, nel tempo reale attuale, un’inversione di tendenza e applicazione pratica dell’epicheia nel senso aristotelico e tomista, ciò non può che fare bene al bene comune, al legislatore a vantaggio del valore morale per la communis utilitas, piuttosto che per la personale utilitas. Un nobile criterio di equità intra leges fa progredire un più sano sviluppo umano, bene primo cui deve tendere il bonum facere politico, poiché,  con s. Tommaso, ’epicheia è “degna di lode”; è una superiustitia con s. Alberto Magno, che è necessario chiamare in causa quando una legge umana deficit propter universale aliquo modo contrarie.

[Foto: Claeissens Antoon – Il Giudizio di Salomone]

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